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28 marzo 2024

Vittorio Veneto

Donne stuprate, bimbi venduti, ragazzi torturati e uccisi. I sopravvissuti raccontano la Libia

Ecco dove abbiamo appena rispedito 140 persone, con il plauso di Matteo Salvini

| Stefania De Bastiani |

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| Stefania De Bastiani |

Donne stuprate, bimbi venduti, ragazzi torturati e uccisi. I sopravvissuti raccontano la Libia

VITTORIO VENETO - Immaginate di stare chiusi per sette mesi in una stanza con altre cento persone. Di non potervi lavare, per quei sette mesi, e di dover dormire per terra, tra altri corpi. Immaginate di venir picchiati quotidianamente, di mangiare solo acqua e farina. Una piccola porzione, una volta al giorno. Immaginate, poi, che la gente intorno a voi inizi a morire. Di fame, di malattia. Uccisa per le troppe botte, o per un colpo di pistola. Fatto partire a caso. Questo è ciò che ha passato Mohamed. Ciò che stanno vivendo circa un milione di persone. Uomini, donne, bambini.

 

Mohamed, il nome è di fantasia, ora vive a Vittorio Veneto ed è uno dei sopravvissuti ai lager che ci sono in Libia. Paese dove ieri, con un plauso del Ministro Salvini, abbiamo rispedito 140 persone che erano appena riuscite a scappare. Il ragazzo preferisce rimanere anonimo, mentre racconta la sua storia, perché, spiega, “devo ancora fare l’esame in commissione per il riconoscimento dello status di rifugiato, e fino ad allora non mi va di espormi”. Mohamed ha 40 anni e, al Ceis, centro di accoglienza della città, è uno dei più "anziani". Non era sua intenzione, raggiungere l’Europa: in Camerun ha due figlie di 7 e 10 anni ed è con loro che avrebbe voluto stare. Ma.

“Nel mio paese – racconta Mohamed – facevo il commerciante. Avevo un negozio di vestiti e riuscivo a mantenere la mia famiglia, finché un giorno il negozio ha preso fuoco, insieme a tutto il quartiere. L’incendio durò cinque giorni e distrusse tutto. Anche la mia vita”. “Nonostante tutto – continua l’uomo - non mi persi d’animo e in poco tempo riuscii ad avviare un’altra attività: facevo bignè. Inoltre, vicino alla mia piccola pasticceria, presi in gestione una fontana pubblica. Me la diede il Comune: ero incaricato di aprirla al mattino e chiuderla la sera. Questa attività mi fece però mettere contro molte persone – spiega Mohamed – la sera, quando andavo a chiudere l’acqua, c’era sempre qualcuno che protestava. La situazione era abbastanza tesa e una sera, durante una rissa a cui io non presi parte, morì un bambino. Nonostante io non fossi presente, mi incolparono dell’omicidio. Chiesi consiglio ai miei cari, e la risposta di tutti fu la medesima: scappa. In Camerun la giustizia non è come qui, e se chi ha il potere crede che tu sia colpevole, non hai via di scampo”.

 

La preoccupazione di Mohamed erano le sue bambine: già rimaste senza madre, non potevano perdere anche il padre. E così partì, alla ricerca di un luogo sicuro dove potesse lavorare per mantenere le figlie, lasciate temporaneamente alla nonna. Da quel giorno sono passati due anni e Mohamed è bloccato a Vittorio Veneto, in attesa di un documento, senza soldi e con molti problemi di salute causati delle torture subìte in Libia. E’ lì che, il ragazzo, credeva di avere rifugio. “Un tempo in Libia si trovava facilmente lavoro – spiega - mentre ora per un nero è impossibile vivere. I neri vengono arrestati e chiusi in una stanza, ammassati l’uno sull’altro. Viene chiesto loro un riscatto e se non hai soldi ti lasciano morire. O ti uccidono”. “A me hanno chiesto 500 dollari di riscatto – riferisce Mohamed – Ma non potevo domandarli a mia madre. Lei fa già fatica a dar da mangiare alle mie figlie, a mandarle a scuola, e io sarei morto piuttosto che privare loro dell’istruzione. Così ho aspettato: per sette mesi sono stato chiuso in uno stanzone. Eravamo circa un centinaio, tutti uomini. Le donne vengono messe in un altro posto, e i bimbi in un altro ancora. Per quei mesi ci davano da mangiare una volta al giorno acqua e farina, tipo cous cous, solo per far sì che non morissimo prima di aver convinto le famiglie a mandarci i soldi. Per spronarci a chiedere il riscatto, ci picchiavano, con spranghe e bastoni, e ci torturavano in vari modi. Qualcuno veniva ammazzato senza motivo”.

 

“Nella stanza dove stavo c’era un buco che veniva utilizzato come toilet – continua Mohamed - e ogni tanto qualcuno lo svuotava. Ma non c’erano docce, non c’era acqua corrente. Io ho tenuto addosso la stessa maglietta per sette mesi”. Mohamed riferisce che non sa nemmeno in che città si trovava, e che è riuscito ad uscire da quell’inferno perché è stato venduto come schiavo. “Un giorno è arrivato un uomo che cercava lavoratori. Sono stato comprato e per tre mesi ho lavorato come muratore per pochi spiccioli. Mi davano giusto qualcosa per comprarmi da mangiare. Ma io sono riuscito a mettere via qualche soldo, sono fuggito, sono arrivato sulla costa, in cerca di qualche trafficante che fa attraversare le persone e sono salito su un barcone. Eravamo 130 persone, molte erano donne e bambini. Per due giorni siamo stati fermi immobili, non potevamo muoverci di un centimetro perché non c’era spazio nemmeno per girarsi. Poi siamo stati recuperati da una grossa nave che ci ha portati a Catania”. “Mi sono sentito salvo – racconta – ma la strada per far arrivare qui le mie bimbe è ancora lunga”.

 

Mohamed è un sopravvissuto ai campi di concentramento che ci sono in Libia. Prigioni di stato, prigioni “private”. Luoghi dove i migranti provenienti dal Centro dell’Africa vengono condotti. Senza distinzioni. Le famiglie che viaggiano insieme, una volta giunte in Libia, vengono divise: le donne vengono stuprate e ammassate tutte insieme. Ricattate o vendute al miglior offerente, solitamente come schiavi sessuali. I bambini, se sono abbastanza piccoli, vengono venduti a famiglie che desiderano un figlio. Gli uomini adulti, nel migliore dei casi, riescono a fuggire dopo essere stati comprati, come è successo a Mohamed.

 

Questi campi di concentramento, che non hanno nulla da invidiare ai lager nazisti di cui ci siamo tanto pentiti, sono attivi a pochi chilometri dalla costa italica. E rimangono aperti e funzionanti nonostante i numerosi reportage fatti in quei luoghi. Rimangono aperti e attivi nonostante abbiamo la possibilità di conoscere cosa sta avvenendo. Se scriviamo su Google “lager Libia” troviamo foto, video e racconti. Ma possiamo anche avere testimonianze dirette, chiedendo a qualsiasi migrante che vive in città: “Cosa ti è successo, in Libia?”. Noi l’abbiamo chiesto. A Mohamed, a Ibrahim, a Boubakar, a Sefu, ai richiedenti asilo che sono capitati, per caso, a Vittorio Veneto.

 

I racconti sono sempre gli stessi. C’è chi è stato in prigione un mese, chi un anno. Chi si è fatto mandare i soldi dalla famiglia, la quale si è indebitata a vita per salvare il figlio. C’è chi, una volta uscito di prigione per aver pagato il riscatto, è stato preso di nuovo, e di nuovo è stato rinchiuso in un lager. Per poi aspettare che la famiglia racimolasse altro denaro. Ciò che accomuna le narrazioni di questi ragazzi, oltre al terrore, è la vergogna. Sefu, ad esempio, anche questo nome è di fantasia, acconsente a raccontarmi cosa accade in Libia, ma parla in terza persona: “E’ successo a un mio amico”, dice.

 

Sefu ha 23 anni, arriva dal Gambia, dove non è mai andato a scuola. Non sa leggere, né scrivere. In Gambia faceva il meccanico di moto e non si sa perché sia arrivato in Italia. Forse, come molte migranti, l’intenzione era quella di andare in Libia a lavorare. Per poi trovarsi ad essere prigionieri senza aver commesso alcun reato. “La Libia è terribile – racconta Sefu - al mio amico hanno sparato sulla caviglia e anche sul braccio mentre tentava di scappare. Poi, sanguinante, l’hanno messo in carcere”. Sefu sta parlando di se stesso, si capisce, ma si vergogna di dire, davanti a me, cosa ha passato. Nel lager ha perso la dignità: denudato, lavato con un secchio d’acqua e lasciato in una stanza piena di uomini per mesi. Senza la possibilità di lavarsi, di andare in bagno. Frustato e torturato dalle guardie, perché i soldi non arrivavano. Sefu non dice come è uscito “il suo amico”. Ma spiega che, la Libia, è pericolosa per un nero: “Tutti hanno una pistola, anche i bambini, e se ti vedono per la strada sparano. Ti uccidono o ti arrestano, non c’è alternativa”.

 

In Libia l’odio è solo verso i neri. Lo dice Tipu, richiedente asilo che vive al Ceis, e che arriva dal Bangladesh. Tipu ha 25 anni, è laureato in scienze politiche, parla cinque lingue, e ha dovuto lasciare il proprio paese perché era un ricercato politico. “Nel 2014 ci sono state le elezioni in Bangladesh – racconta il ragazzo – Sono state delle elezioni farsa. Le opposizioni hanno denunciato il caso e sono scoppiati scontri in cui hanno perso la vita diverse persone. Il paese dopo le elezioni del 2014 è finito nel caos ed io, che all’epoca lavoravo all’Università, sono stato coinvolto. Facevo infatti parte di un gruppo studentesco accusato di voler far cadere il governo. Per la legge ero un criminale: la condanna era l’ergastolo. Così mi sono trovato di fronte due scelte: andare in prigione per il resto della mia vita, o fuggire”. Tipu ha preso un aereo. Dal Bangladesh è arrivato fino in Turchia. Ma da lì non poteva raggiungere l’Italia né nessun altro paese europeo: l’Europa non concede visti ai bengalesi. Così ha dovuto prendere un volo per la Libia e lì, dopo aver lavorato tre mesi per racimolare denaro, è salito su un barcone, per raggiungere, insieme agli africani, la Sicilia.

 

I neri in Libia vengono arrestati, ma noi bengalesi no. Ci fanno lavorare. Io sono riuscito a trovare un impiego, avevo bisogno di soldi. Tra voli e traversata in mare, ho speso 7.400 euro per il viaggio – riferisce Tipu – molto di più che se avessi ottenuto un visto da un paese Europeo”. Perché Tipu e i migranti non prendono un aereo per arrivare in Europa? Perché non concediamo visti umanitari. La Libia è solo l’ultima tappa del viaggio di chi parte da Nigeria, Mali, Niger, Gambia, Guinea, Ghana, Bangladesh, Pakistan. Il viaggio dura mesi, a volte anni, e le persone non muoiono solo nei campi di concentramento libici e nel mar Mediterraneo, ultimo tratto del percorso, ma anche nel deserto, e sui confini tra uno stato africano e l’altro. Per compiere questo viaggio pericoloso e illegale i migranti spendono i risparmi di una vita di un’intera famiglia. Con molto meno denaro potrebbero arrivare in Europa in modo sicuro e andare nel paese che vogliono. Non si concentrerebbero tutti in Sicilia. Non passerebbero, e non morirebbero, nei campi di concentramento. Per svuotare quei lager, per esempio, si potrebbero concedere visti. Si eviterebbero centinaia di migliaia di morti.

 

Ma evidentemente, a qualcuno, quei campi convengono. E noi non siamo abbastanza incazzati da farci sentire. Da fermare un olocausto che sarà letto dai posteri come noi abbiamo visto lo sterminio degli ebrei nei lager nazisti. Un crimine con pochi colpevoli e centinaia di migliaia di complici. Noi saremo quelli che sapevano - e a differenza degli anni ’40 abbiano foto e video che documentano tutto – ma sono stati zitti. Noi saremo i cittadini che facevano finta di nulla. Mentre la gente veniva privata della dignità, torturata, uccisa. Con il nostro silenzio.

 


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