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28 marzo 2024

Vittorio Veneto

EHI, MISTER!

Sulla panchina dell’Udinese. Con Gianni De Biasi

| Emanuela Da Ros |

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| Emanuela Da Ros |

EHI, MISTER!

Vittorio Veneto - Da un mese sta lì. Sulla panchina dell’Udinese. E mentre osserva i giocatori di una squadra “a cui vuole dare un futuro diverso” c’è da pensare che sia concentratissimo. Sulla tattica, sulla formazione, sulle strategie, sulle potenzialità dei giocatori. E che non si sognerebbe mai di girare le spalle a quel mondo (il mondo del calcio) o a quel campo (verdissimo) che hanno fatto la storia e la fortuna della sua vita.

Eppure Gianni De Biasi (nelle foto), allenatore dell’unica squadra friulana di Serie A, ogni tanto indietro si volta. Per guardare da dove è partito (i primi calci li ha dati col San Martino, poi col San Giacomo, poi col Vittorio, poi col Treviso…), per non perdere troppo di vista i “compagni di merende” (Loris, Livio…), per sedersi a tavola con mamma Bruna e tutta la famiglia, a Sarmede, in quel paese così diverso così cambiato, dove nel giugno del 1956 è nato in casa, non all’ospedale. E per scrivere - in una notte insonne - una lettera a suo padre Momo, scomparso 22 anni fa.

Da cronisti a-zero-vocazione-sportiva quali siamo, non sappiamo se Gianni De Biasi sia un allenatore da mille e uno scudetto. Se sia stato un campione da urlo e ola, un calciatore di quelli troppo bravi e fighi per essere veri. Ma la chiacchierata con lui (e non l’intuito o simili mercanzie sentimentali) ce l’hanno avvicinato subito. E non poteva che essere così dato che il neo allenatore dell’Udinese è nato qui, proprio da queste parti.

Gianni De Biasi, torni spesso a Sarmede?

Sarò a Sarmede anche stasera. Appena posso pranzo lì, con mia mamma e la mia famiglia. Da calciatore e da allenatore ho girato tutta l’Italia, ma le mie radici mi hanno sempre tenuto legato a questa terra. Mi sento vicino al paese della mia infanzia. Agli affetti con cui sono cresciuto. In una note insonne ho scritto una lettera a mio padre Girolamo, morto un mese dopo il mio matrimonio con Paola, in cui mi rivedo e mi racconto anche bambino. Di Paola, cioè del grande amore di Gianni, parleremo tra poco, ma se siete curiosissimi (e se non lo siete, vale la pena di diventarlo) andatevi a scorrere la lettera a “Momo” pubblicata sul sito ufficiale di De Biase (www.giannidebiasi.it). Una lettera in cui l’allenatore parla della sua infanzia in una palazzina di tre piani, di fronte alla chiesa di Sarmede “dove dormivano i suoi genitori, i nonni, la zia Angela e la zia Gigia”, dove è venuto alla luce lui, ma pure il fratello Massimo, di due anni più giovane, e la sorella Tiziana, che deve a Gianni il suo nome di battesimo e dove la nonna lo svegliava con un pasticcino fresco arrivato da Vittorio Veneto. E della scuola elementare dove Di Biase imparò l’inno di Mameli col maestro Venier. E poi di come, una volta intrapresa…per gioco e per fortuna, la carriera di calciatore, il Gianni ragazzo abbia trovato l’amore.

Nella tua biografia, tra i luoghi dell’anima, della professione e dello sport, ricordi Caorle, che per anni è stata un po’ la spiaggia privilegiata di chi viveva qui.

Caorle è stato l’inizio del mio ingresso nel mondo del calcio di un certo livello (a 17 anni mi trovavo nella cittadina adriatica per un pre-ritiro con alcuni ragazzi più giovani) e un giorno ho visto passeggiare, sulla spiaggia, in riva al mare, una ragazza bellissima: Paola, appunto.

Ed è stato amore a prima vista: solo che lei abitava a Milano….

Sì, ma per una serie di circostanze positive, quello che sembrava un sogno irraggiungibile si è realizzato. Dopo il mare, torno a casa per pochi giorni, ma continuo a pensare a lei. Sto per andare a Treviso, a iniziare un’esperienza che mi lancerà nel mondo professionistico e il pensiero è per Paola. Ma pochi mesi dopo, a febbraio, succede qualcosa di incredibile. I dirigenti dell’Inter, che hanno messo gli occhi su di me, mi convocano a Milano. E io mi trasferisco proprio nella città dove vive la ragazza di cui sono innamorato.

A questo punto, se fossi preparata, ti farei un sacco di domande sulla tua carriera di giocatore e di allenatore gloriosamente arrivato in Serie A. Ma più che rincorrere una palla o meglio i tuoi successi, vorrei restare dove ti ha portato il cuore. Il grande amore per Paola continua ancora?

Sì. Ho sposato Paola nell’estate del 1987 dopo un fidanzamento lunghissimo. Stiamo ancora insieme e abbiamo una figlia, Chiara, che ora ha 17 anni.

Dove vivete?

A Conegliano. Quando è nata nostra figlia abbiamo deciso di prendere una residenza stabile, di mettere?radici, anche a costo di fare qualche sacrificio, di dover stare lontani qualche periodo.

Tua moglie Paola lavora?

No. Ora no.

Forse la mia era una domanda sciocca. E ora la rendo provocatoria: le mogli dei calciatori non hanno bisogno di lavorare perché lo stipendio che entra in casa è bello alto, no?

Nel mondo del calcio c’è chi guadagna tanto e chi no. Siamo in un mercato libero, che risponde alla legge della domanda e dell’offerta. Ma è vero: c’è chi guadagna molto, moltissimo; chi ha un sacco di visibilità, standard di vita di gran lunga superiori alla media e un’opportunità di crescita anche lavorativa eccezionali. Ma è anche vero che i bravi giocatori, rispetto al numero di coloro che intraprendono questo sport, sono pochi: la percentuale di chi arriva in cima è bassissima. Alla base c’è talento, ma anche una dura selezione, competizione?

Ma non si destina troppo al calcio, anche a scapito di altri sport?

E’ folle la fetta di spesa riservata al calcio, però è vero che questo è lo sport più popolare e che ha consentito di fare arrivare introiti anche ad altre attività.

Secondo te perché il calcio piace così tanto?

Butta una palla in un cortile dove giocano dei bambini. Tutti le correranno appresso. La palla aggrega, è divertente, fa fare squadra. Mettici anche una bici in quel cortile. Resterà ferma, finché la palla continua a correre.

Tu sei stato sia calciatore che allenatore. Quale ruolo ti è più congeniale?

Il secondo. Anche se è più difficile, più impegnativo. Il giocatore deve pensare solo a stesso, l’allenatore deve pensare a 25, 26, 27 giocatori anche se poi, alla domenica, ne scendono in campo 11. Molti pensano che sia semplice allenare una squadra. Non è così. Ci vuole la capacità di aggregare, di capire i giocatori, di coglierne le abilità, in contesti diversi.

Ma a te piace questa complessità.

Moltissimo.

Ultima (o penultima) domanda: sei felice?

Ho coronato molti sogni. Mi sento realizzato. Anche arrivare all’Udinese è stata una conquista bellissima. Ma ho ancora un sogno nel cassetto.

Ce lo riveli, così tifiamo per questo sogno?

Vincere un campionato.

 


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