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25 aprile 2024

Vittorio Veneto

Viaggio a Nomadelfia, dove non esistono i soldi

L'esperienza dei ragazzi di Revine Lago (e dintorni)

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Viaggio a Nomadelfia, dove non esistono i soldi

REVINE LAGO - A 15, 16, 17 anni, la voglia di scoprire il mondo, di conoscere, incontrare, sperimentare e avventurarsi è grande e, a volte, incontenibile. Scegliere di partire per lasciarsi stupire e travolgere da nuovi volti, sorrisi e mani è una decisione che appare quasi naturale e semplice agli occhi dei giovani. Ed è la decisione che hanno preso 26 ragazze e ragazzi dai 14 ai 23 anni di Revine Lago e dintorni, che il 16 luglio sono partiti da Conegliano per un viaggio di 6 giorni, costellati di esperienze piuttosto inusuali e che non potranno essere dimenticate facilmente.

 

L’itinerario organzzato da Roberto, Marica e don Angelo, ha condotto i ragazzi a conoscere tre realtà diverse, prima fra tutte la cittadella di Loppiano. Si tratta di una comunità fondata da Chiara Lubich, che dal ’64 ospita famiglie e giovani provenienti da 65 nazioni, di condizioni sociali e fedi religiose diverse. Ad oggi la comunità conta 850 abitanti, che vivono, lavorano, studiano e operano affinchè “tutti siano uno”. Loppiano è nata come prima cittadella dei Focolari, un movimento di carattere religioso che ha potuto concretizzare i propri ideali di condivisione e fraternità all’interno di questa località situtuata nella Val d’Arno.

 

La testimonianza di Arnaldo, che ha deciso di lasciare Cuba più di un anno fa per venire a studiare e diventare focolarino qui all’età di 27 anni e quella di Roger, suo coetaneo dalla Costa d’Avorio, hanno lasciato nuovi spunti di riflessione nei ragazzi che li hanno ascoltati con interesse e curiosità. Arnaldo ha spiegato che la vita in comunità è dedicata interamente agli altri e che è necessario imparare a mettere da parte le proprie priorità per aiutare chi ha più bisogno.

 

Puche, ragazzo venezuelano, anche lui impegnato negli studi per diventare focolarino, ha raccontato che nel suo paese d’origine ha studiato biologia, ma ora, a Loppiano, lavora nella mensa: “Qui non c’è uno studio di ricerca dove io possa praticare come biologo, quindi, senza sapere nulla di cucina, ho iniziato a lavorare nella mensa. Ora mi piace tanto operare lì e sono sempre al servizio degli altri.” Sperimentazione di convivenza, comunicazione e collaborazione tra persone diverse fanno di Loppiano una realtà particolare, che ogni anno viene visitata da gruppi, famiglie e giovani incuriositi da questo progetto che ha oltre cinquant’anni di esperienza. Sulla scia dei valori respirabili nell’atmosfera di Loppiano, il gruppo di giovani della diocesi di Vittorio Veneto ha continuato il suo percorso dirigendosi a Nomadelfia, laddove “la fraternità è legge”. Nomadelfia è situata nei pressi di Grosseto e si estende per 4 kmq, accogliendo 300 abitanti.

 

“A Nomadelfia non esistono i soldi, si vive tutti insieme ma suddivisi in 12 gruppi familiari, composti ciascuno da 3-4 famiglie che condividono tutto.” Così ha spiegato Samuel, nato e cresciuto all’interno di questa comunità voluta da don Zeno (1900-1981), sulla quale è stato scritto e studiato molto da sociologi e giornalisti che spesso visitano la comunità. Numerosi sono i bambini che animano le strade di Nomadelfia e che, con sguardo vispo e furbo, sono pronti ad accogliere e a voler quasi rassicurare i visitatori che, come i nostri ragazzi, rimangono talvolta sconvolti o scettici davanti allo stile di vita che gli abitanti di questo “piccolo mondo” decidono di adottare.

 

I cosiddetti nomadelfi, infatti, escono raramente dalla loro comunità, dove lavorano, studiano e svolgono tutte le attività quotidiane, costantemente al servizio di quella che viene definita una “grande famiglia”. Il lavoro nei campi e per l’azienda agricola, rendono la comunità autosufficiente e le scuole per bambini e ragazzi sono gestite dai genitori, che se ne occupano diventando gli stessi insegnanti. Le prime impressioni dei ragazzi che entrano in contatto con questo mondo conosciuto da pochi, sono varie e discordanti. C’è chi ammira queste persone per aver scelto di intraprendere un’esperienza di vita così radicale, o chi percepisce la realtà di Nomadelfia come un mondo troppo distante dal nostro, dove vivere significherebbe rinunciare a delle comodità o a dei progetti ai quali ormai la società ci ha abituati. “Semplicemente la nostra priorità sono i rapporti umani: questi vengono prima di tutto. Il resto, come i soldi o la gerarchia di potere negli ambienti lavorativi, non ci devono interessare. Fanno fatica a crederlo, coloro che non vivono a Nomadelfia!”

 

Aver avuto l’opportunità di conoscere dal vivo e poter parlare, fare mille domande, giocare con gli abitanti di Nomadelfia, è stata un’esperienza che nei giovani ha avuto il potere di aprire gli orizzonti per cercare di comprendere un mondo nel quale vige il rifiuto di tutto ciò che è superfluo e si può tradurre in superficiale.

 

Dalla Toscana, di nuovo zaini in spalla e direzione Roma, dove tre giorni intensi attendevano i ragazzi, ormai catturati da un vortice di emozioni che, si sa, hanno il potere di rendere più carichi e pronti gli animi. Le attività svolte nella capitale hanno avuto come parola chiave “servzio”. Servizio, aiuto, sostegno e dialogo dedicato a coloro che vivono ai margini della strada e ai margini della società. Coloro che non hanno casa, non hanno affetti e vivono con una piccola borsa con dentro tutto quello che gli è rimasto tra le colonne di Piazza San Pietro o sotto ai ponti dai quali i grandi fotografi cercano di immortalare le bellezze di Roma.

 

In collaborazione con la comunità di Sant’Egidio i 26 ragazzi hanno prestato servizio presso la mensa che accoglie due sere alla settimana chi ne ha bisogno, affiancando i volontari in cucina, nel servizio ai tavoli, allo sportello accoglienza e, soprattutto, nell’approccio diretto, nel dialogo vero e sincero con gli ospiti.

 

“Abbiamo parlato a lungo con loro. Ognuno racconta la propria storia, che è unica. Noi siamo curiosi di conoscere la loro ed è bello poterli ascoltare, ma loro sono interessati a sapere qualcosa anche delle nostre vite. Ci chiedono cosa studiamo, ci sorridono, ci abbracciano”, raccontano i ragazzi. Sempre in collaborazione con la comunità di Sant’Egidio, molto attiva sul fronte dell’accoglienza e dell’integrazione anche nel campo dell’immigrazione, i ragazzi volontari divisi in due gruppi si sono occupati della distribuzione dei pasti in modo diretto, consegnandoli alle donne e agli uomini che di sera attendono ai bordi delle strade e delle piazze il pacchetto che contiene un pasto, un po’ di frutta e dell’acqua.

 

L’occasione di incontro diretto con delle persone che vivono una condizione così difficile e dimenticata da molti, poterci chiacchierare, ascoltarli, scattare dei selfie o guardare le foto dei loro figli o nipoti lontani, lascia dei segni forti e indelebili. Sono tanti i nomi, le parole scambiate, gli sguardi e chi in quel momento decide di accoglierli e ascoltarli riesce a manifestare solamente vicinanza e comprensione. Scegliere di servire chi viene considerato lo scarto della società, significa accettare di sporcarsi le mani, mettersi in gioco e i ragazzi di Revine l’hanno fatto anche nella preparazione dei pasti organizzata dalle suore della Casa Santo Spirito, presso la quale hanno alloggiato.

 

Le suore si occupano del servizio di distribuzione due volte alla settimana e, in occasione dell’arrivo del gruppo di giovani, la preparazione dell’insalata di riso e della macedonia è diventato un lavoro di gruppo durante il quale ognuno era impegnato in un compito preciso. Sono tante le parole che i ragazzi hanno condiviso e ripetuto per descrivere quest’esperienza intensa. Forse ciò che riassume al meglio le emozioni che rimarranno a lungo nei loro cuori è stata la gioia di poter salutare per nome passando per le vie di Roma, coloro che vengono etichettati come “barboni”, riconoscendo i volti degli amici con i quali la sera prima i giovani avevano chiacchierato.

 

Sara Saccon

 



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