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28 marzo 2024

Treviso

50 anni dalla strage di Piazza Fontana: "Il mio aiuto alle indagini"

Guido Lorenzon, il trevigiano che contribuito a svelare i retroscena della "madre di tutte le stragi". A rischio della sua vita.

| Gloria Girardini |

| Gloria Girardini |

50 anni dalla strage di Piazza Fontana:

TREVISO- Erano le 16.37 del 12 dicembre del 1969. Mancavano due settimane a Natale quando una bomba esplose all’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura a Milano. E l’Italia non fu più la stessa. La “madre di tutte le stragi” (come fu definita all’epoca) uccise 17 persone di cui 13 sul colpo, ferendone altre 88. L’ordigno, contenente 6 chili di esplosivo, venne piazzato nel grande salone della banca, a quell’ora affollato di persone. Prima ci fu la luce, poi seguì il gran boato. La scena che si presentò ai soccorritori fu apocalittica, fatta di morti, urla e sangue. Un buco nero quello lasciato dalla bomba che sembrò risucchiare la verità. La colpa dell’attentato venne data agli anarchici.

 

Giuseppe Pinelli, ferroviere anarchico che aveva lottato per la liberazione del Paese dalle forze nazifasciste, "volò" da una finestra della questura di Milano, dove era trattenuto per accertamenti, nella notte tra il 15 e il 16 dicembre. Il giorno dopo, il giovane giornalista Bruno Vespa comparve nelle televisioni degli italiani per annunciare che Pietro Valpreda, un altro anarchico, era ritenuto uno dei colpevoli dell’attentato di Piazza Fontana, oltre che della bomba esplosa a Roma alle 16.55 nelle vicinanze della Banca Nazionale del Lavoro e di quella inesplosa a Milano nella Banca Commerciale Italiana, tutte in quel fatidico 12 dicembre del 1969. Il caso era quindi chiuso, i colpevoli erano gli anarchici.

 

La paura iniziò serpeggiare nelle case degli italiani, l’obiettivo della “strategia della tensione” messo in atto dai Servizi Segreti deviati e i gruppi di estrema destra era stato raggiunto. Una strategia che prevedeva una serie di attentati dinamitardi da attribuire alle forze anarchiche per creare un clima di tensione e paura, di instabilità politica volta a favorire le fazioni reazionarie: la sinistra in Italia stava conquistando sempre più favore e per queste forze andava fermata a tutti i costi. Pietro Valpreda era la persona perfetta da sacrificare, gli italiani avevano il loro colpevole. Ma qualcosa nel frattempo a Treviso si muoveva, un imprevisto stava per rovinare i piani dei servizi segreti deviati e degli attentatori: un testimone, Guido Lorenzon, insegnante di 28 anni, stata raccontando un’altra verità. E la racconta anche a noi oggi

 

 

Dov’eri il 12 dicembre del ‘69?

 

Ero a casa a Varago e stavo correggendo i compiti di italiano, all’epoca insegnavo alla scuola media di Arcade. Mia mamma mi portò la radiolina che teneva sempre accesa, mentre davano la notizia, dicendomi di ascoltare quanto era successo. Quel momento mi è rimasto scolpito nella mente. Una strage, un episodio devastante, fuori dall’immaginario in quei tempi. Nei mesi precedenti c’erano state delle bombe nei convogli dei treni, e Giovanni Ventura (uno dei veri “responsabili”, come emergerà successivamente, ndr) mi aveva detto di essere stato il finanziatore di questi attentati dinamitardi. Gli credevo e non gli credevo, aveva dimostrato diverse volte di non essere una persona affidabile

 

Come hai conosciuto Ventura?

 

L’ho conosciuto l’8 ottobre del ‘63 al collegio Pio X di Borca di Cadore. Un collegio per interni che frequentavano il ginnasio, gestito dalla diocesi di Padova. Tanti ragazzi che venivano da ogni parte d’Italia. Ventura era uno di questi studenti. Lo conobbi il giorno in cui iniziai la mia attività di assistente alla terza liceo classico nel collegio. Ci siamo trovati nello stesso tavolo alla mensa: il vicerettore del collegio mi aveva detto che c’era uno studente trevigiano e che ci avrebbe messo al tavolo insieme. Per un anno, mattino, mezzogiorno e sera mi ritrovai con lui ed altri ragazzi a mangiare. Si è creato un legame con tutti, ma con lui in particolare perché si comportava come un compaesano. Aveva tre anni in meno di me.

 

Quando è suonato il campanello d’allarme che ti ha fatto sospettare che Ventura c’entrasse qualcosa?

 

Diversi dubbi mi erano sorti nei mesi precedenti, sapevo che aveva delle frequentazioni equivoche da un punto di vista politico. Lui era un ragazzo di destra come pure la sua famiglia, ma fingeva quasi in maniera plateale, di essere di sinistra. Sapevo che era in possesso di alcune veline particolari ( una velina è una nota proveniente da una fonte esterna ad una testata, che contiene indicazioni sulle notizie da pubblicare e sulle modalità di impaginazione, ndr), lui me le mostrava, ma a me non dicevano nulla. Poi si è saputo che quei “rapporti” erano del giornalista Guido Giannettini per conto del Servizio Segreto. In precedenza mi aveva confidato di essere stato tra i finanziatori e organizzatori degli attentati sui treni, quindi c’erano tanti campanelli d’allarme. Mi aveva anche mostrato alcune armi che teneva nascoste. Però un “campanello” suona e passi ad altro, perché pensi che non tocca a te giudicarlo, non gli credi nemmeno del tutto. Ci incontravamo, si parlava di politica, soprattutto di libri. Quando ho saputo della bomba di Milano ho avuto un sospetto molto forte sulla possibilità che l’irreperibilità degli ultimi giorni di Ventura fosse collegata a quello che era successo

 

Cosa ti ha spinto a parlare?

 

C’è stato un passaggio molto importante e difficile da comprendere, che è quello tra l’avere la “quasi convinzione” che lui c’entrasse in qualche modo e utilizzare questa “quasi convinzione” per decidere che dovevo fare qualcosa. Ho detto a Ventura di andare dal magistrato, mi ha risposto: “Figurati”. Lui non l’ha fatto, l’ho fatto io

 

Come ha reagito quando gliel’hai detto?

 

Ci fu una discussione violenta, da parte sua una reazione molto forte che mi convinse ancor di più che non fosse innocente. Avevo il profondo desiderio che non c‘entrasse, il timore di denunciarlo per una cosa di poco conto e che venisse incolpato per atti gravi di cui non era responsabile. Sapevo che aveva delle armi e che era un reato, ma non toccava a me giudicare. A Treviso si dice “ Mi no vai a combàtar” ( ovvero io non mi intrigo): sono stato la persona che ha smentito questo modo di dire. Sapevo che non parlava solo con me di queste cose, ma anche con altri. Ci raccontava di piccole cose, collegate però a quelle più grandi. Una ragnatela di discorsi difficili da districare e interpretare. La strage mi ha fatto scattare qualcosa. La vista dei funerali  in diretta televisiva, guardata in compagnia dei ragazzi della scuola in cui insegnavo, mi ha fatto pensare “Non so se Ventura c’entri o meno, ma non devo essere io a deciderlo”. Quindi mi sono rivolto, secondo la mia coscienza, prima ad un avvocato e poi al magistrato Pietro Calogero. Ci incontravamo ad orari e posti assurdi, come davanti ad un cimitero o in una discoteca a mezzanotte, in provincia di Treviso

 

Perché secondo te Ventura ti mostrava le armi in suo possesso e ti rivelava queste informazioni?

 

Non so rispondere a questa domanda e non è più possibile domandarlo a lui. Non lo ha mai detto. Una cosa però è certa: Ventura e Franco Freda, l’altro colpevole,  erano convinti che qualsiasi cosa succedesse, loro fossero intoccabili. A Padova c’era il commissario Pasquale Juliano che aveva scoperto i timer delle bombe e la responsabilità di Freda nell’attentato. Il commissario avrebbe dovuto  incontrare un testimone, ma quest’ultimo morì “cadendo” misteriosamente dalla tromba delle scale. Tutto questo è stato descritto “Libretto rosso” da Freda e da Ventura, uno scritto che li metteva in diretta relazione e che in poche parole dichiarava il fatto che fossero intoccabili.

 

Dopo aver parlato con il magistrato cosa è accaduto?

 

Che clima c’era in quei giorni in Italia? C’era la strage e c’era il “colpevole”, Valpreda. L’indagine stava proseguendo per capire chi lo aveva aiutato. Il popolo italiano ufficialmente sapeva tutto. A Treviso invece  la situazione si stava muovendo diversamente. Non avevo prove materiali, ma solo le parole di Ventura. Era la sua parola contro la mia. Avevo raccontato quanto sapevo alla magistratura, ma Ventura negò tutto, c’era quindi la necessità per gli inquirenti di capire chi dei due dicesse la verità. Iniziò una serie di operazioni in cui dovevo indossare un registratore e parlare con Ventura per carpire tutte le informazioni utili a dimostrare che dicevo il vero. E così è fu.

 

Fu facile ottenerle?

 

Naturalmente no, fummo sabotati, tutto quello che poteva servire per impedire un esito positivo fu messo in atto da chi voleva ostacolare il buon esito dell’operazione: il filo dell’antenna staccato, le pile scariche, il registratore con il nastro a fine corsa. Ogni volta qualcosa andava storto, finchè non intervenne direttamente il magistrato Pietro Calogero che controllò personalmente che tutto funzionasse e così fu

 

Come vivevi quel periodo?

 

Non è stato facile, avevo molte persone contro. Ad esempio Tina Anselmi scrisse una lettera contro di me e a favore di Ventura, lettera di cui non si è mai pentita. Fui accusato di essere un pazzo, vivevo quel periodo avendo contro una parte delle forze dell’ordine e della politica

 

Hai più parlato con Ventura?

 

I colloqui tra noi si interruppero ad un certo punto. Poi lui mi cercò, ci vedemmo un paio di volte in casa di un amico in comune, tra il dicembre del ‘69 e l’autunno del ‘71. Era il periodo in cui ero imputato per calunnia, mentre Ventura era stato assolto, il suo fascicolo a Treviso era archiviato. Non ci siamo parlati molto. Poi Freda e lui furono denunciati ed arrestati. Ci incontrammo ancora con il magistrato presente e poco dopo questo incontro Ventura ammise tutto quello che io avevo dichiarato. Ci incontrammo di nuovo al processo di Catanzaro, alla sera si andava a cena più o meno tutti nello stesso posto. Ventura mi chiedeva di dichiarare che era di sinistra, gli ho risposto che avrei detto sempre la verità.

 

Com’era come persona?

 

Era una persona molto complessa, è incredibile come un individuo così titubante, così carico di dubbi filosofici, si sia prestato a tali atti. Il deposito dell’esplosivo era in un casolare che lui aveva preso in affitto a Paese, dove è stata anche confezionata la bomba Secondo te si è mai pentito? Ho avuto la percezione che si fosse pentito, ma che non potesse collaborare con la giustizia. So che quando era in carcere a Monza era stato organizzato un piano per farlo evadere, ma lui si rifiutò: questo mi fa pensare che avesse avuto l’intenzione di raccontare come stessero davvero le cose.

 

Hai mai parlato con Valpreda?

 

Mai. E posso dire che non mi ha mai ringraziato (ridendo), almeno che io sappia

 

Hai avuto paura che ti uccidessero?

 

Si, ma ero tranquillo grazie al fatto che avevo verbalizzato tutto quello che sapevo. Uccidermi avrebbe solo dimostrato che quanto avevo detto era vero. Non mi sono mai pentito, rifarei tutto: avevo davanti a me solo una strada, moralmente era l’unica scelta che potevo fare. Ho scoperto qualche anno dopo che Freda aveva dato l’incarico al terrorista Vincenzo Vinciguerra di uccidermi, questo prima che trovassero le armi che confermavano le mie parole.

 

Come mai Vinciguerra non ha portato a termine il compito?

 

Rispondo con le sue parole:“I carabinieri mi hanno arrestato prima”

 

La vicenda è stata quindi chiarita del tutto?

 

No. Quello che manca ancora è una sentenza che dica “la bomba l’ha messa lui”. La Giustizia ha decretato alcuni dei “responsabili”: Franco Freda e Giovanni Ventura, e questo è un punto importante, benchè non siano più processabili in quanto assolti con sentenza definitiva nel 1987. Ma non è tutta la verità: ci sono molte persone che la conoscono, sono ancora vive, ma non parlano. La mia decisione di denunciare ha portato a scoprire quello che era successo il 12 dicembre del 1969 alla Banca Nazionale dell’Agricoltura a Milano. I familiari delle vittime sanno chi c’era dietro bomba, almeno due nomi ci sono, altri se ne sono aggiunti successivamente. Il fatto che sia mancata la “punizione” non mi riguarda. Come cittadino so che questo era l’obiettivo di chi ha depistato in tutti questi anni e continua a farlo tuttora. La sicurezza che queste persone avevano sulla loro impunità si è rivelata fondata, erano e sono intoccabili. Io sono stato l’imprevisto per loro e per gli strateghi della strage. Dovevano essere assolti. Erano sicuri di farcela e ce l’hanno fatta...ma non del tutto, gli italiani sanno chi sono i colpevoli.

 

Grazie al senso civico del cittadino Guido Lorenzon, si è potuto scrivere la verità sulla strage di piazza Fontana. Una verità che sarebbe stata insabbiata ai danni non solo di una persona innocente come Pietro Valpreda, ma dell’intera società. Un scelta che ha cambiato inesorabilmente la vita di Guido e della sua famiglia, ma che ha dato alle nuove generazioni gli strumenti utili a capire quegli avvenimenti che hanno lasciato un segno profondo nella storia italiana. Un esempio di rettitudine e di onestà civile.

 

Ad oggi Lorenzon è impegnato con il progetto “La bomba di piazza Fontana” un racconto civile per portare nelle scuole d’Italia la verità di quanto avvenne quel 12 dicembre del 1969, grazie alla collaborazione del giornalista Daniele Ferrazza.

 

 

 

 

 


| modificato il:

Gloria Girardini

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