L’ovvio che non è più ovvio
Abitudini e quotidianità ora sono nel giogo del coprifuoco. E domani che succederà?
| Emanuela Da Ros |
Che cosa vorrebbe leggere una persona in questo momento? Cosa vorrebbe sentirsi dire con la conferma del riferimento mediatico?
Vorrebbe risposte certe, rassicuranti; notizie che facciano tirare un sospiro di sollievo per la fine di un incubo. Non si può, non ci sono e con la stizza del “lo sapevo” si volge lo sguardo da un’altra parte, in un altro articolo o si volta pagina invece si rimane fissi nella lettura perché l’ovvietà delle domande è talmente evidente da attirare l’attenzione.
Ovvio che si debbano rispettare le regole dettate dal Ministero della Salute, ovvio che non si debba uscire di casa nella cui segregazione si viva a volte “stretti” e costretti, ovvio che si debbano indossare le mascherine, è senza ombra di dubbio alcuno, innegabile, ovvio. Diciamo però che siamo anche consapevoli che l’ovvio spesso è vissuto come una possibilità alla sua negazione; si crea un fastidioso contorcimento cerebrale e viscerale da introdurre un tale subbuglio che ci spinge verso altre considerazioni oltre l’ovvio per evitare di cadere nella rabbia e nella frustrazione. Ciò che è ovvio ci crea uno squilibrio interiore, mette in dubbio la nostra intelligenza e qui nasce il problema contemporaneo dell’ovvietà come mezzo di comunicazione.
A me l’ovvio annoia, terribilmente, eppure a qualcuno dona sicurezza, serenità. Una tranquillità interiore che ci tiene lontani dalle difficoltà delle news ultimo secondo. Ed ecco la mia riflessione sull’ovvio che rimarrà in incubazione fino alla fine di questo drammatico periodo: era tutto ovvio fin due mesi fa, il consumismo, gli assembramenti per le feste, per le sagre, per i saldi. Era ovvio il lavoro, lo studio, le code alla posta; era ovvio un caffè, un aperitivo tra amici, conoscenti; ovvi i baci e gli abbracci veri e quelli di convenienza.
Ora tutto è sparito, fagocitato dalla precarietà del quotidiano che scorre sul filo di un virus dal nome quasi fiabesco: coronavirus. Un re malvagio e invisibile che usa le sue molecole per uccidere anche le belle principesse, solo alcuni eroi vestiti di bianco lo combattono fino all’estremo, fino al sacrificio della loro stessa vita.
Quell’ovvio così rassicurante e metodico in cui ci siamo avvolti tutti i giorni nel passato, si è disintegrato in un individualismo a volte incosciente ed egoistico e ci rimangono le nostre quattro mura di casa entro cui agire, pensare, muoversi guardandoci finalmente in viso e giù giù fino alle emozioni, ai sentimenti.
Il pianeta era ovvio per i nostri usi: eccessivo consumo di acqua, di alimenti ricercati per il nostro divertimento e gusto, legni pregiati per l’arredamento delle case, smaltimenti di rifiuti in discariche che anno scarnificato prati e campagne…Un pianeta in balia di luci, asfalto e grattacieli.
Ora sembra essere tutto finito in un coprifuoco in cui solo il vento è libero di muoversi e l’ovvio è il non rimanere contagiati, non più le regole di convivenza “civile” ma una sopravvivenza singola per il bene dell’altro in una rete invisibile fatta di distacco e distanza.
Cosa sarà l’ovvietà quando tutto passerà? Si ritornerà alla vita di prima o ci si getterà nello sfrenato senso di rinascita abusando ancora e di più della nostra terra, degli spazi, dei beni a nostra disposizione? Sarà tutto ovvio quello che si farà o inizieremo una nuova fase della vita in cui il tempo a disposizione e la solitudine forzata ci avranno insegnato a non dare più nulla per scontato amando, rispettando, proteggendo quello che si ha, anche le piccole cose; rendendo sinceri i nostri sguardi e i nostri affetti, pensando alla sacralità della vita nelle sue più intime espressioni?
Che cosa vorrebbe leggere una persona in questo momento? Che tutto andrà bene e non solo riferito alla fine dell’infezione ma anche ad un prossimo futuro fatto di gente nuova e consapevole di valori finalmente ritrovati.
Alessandra Paola Vacalebre