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28 marzo 2024

Vittorio Veneto

"Non si sa con certezza che fine faranno quelli che già sono qui": i timori del vescovo per i migranti

L'intervista al vescovo Corrado Pizziolo

| Pietro Panzarino - Vicedirettore |

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| Pietro Panzarino - Vicedirettore |

VITTORIO VENETO – Siamo alla vigilia della XVI Settimana Sociale, organizzata dalla Diocesi di Vittorio Veneto dal 19 al 23 febbraio. Di questa serie di appuntamenti, Mons. Corrado Pizziolo è il “garante” per la sua responsabilità di Vescovo. Tra l’altro, a partire dalla VI settimana, nel 2008, era già presente in Diocesi. Lo abbiamo intervistato ad ampio spettro.

 

Siamo alla 16a settimana sociale nella nostra diocesi. Potrebbe chiarire il significato di questo appuntamento? È riservato ai cattolici o anche a cittadini non cristiani?

Sono arrivato a Vittorio Veneto nel 2008, proprio alla vigilia della quinta settimana sociale della Diocesi, alla quale, quindi, ho partecipato. Si tratta di un appuntamento annuale in sintonia con la tradizione dei cattolici italiani che, dal 1907 a Pistoia e poi via via negli anni successivi, hanno dato vita a questo evento. Vale la pena di ricordare che – a quel tempo - il più convinto sostenitore di questa iniziativa delle Settimane sociali fu il nostro conterraneo Giuseppe Toniolo, ora beato. La settimana sociale - sia a livello nazionale che diocesano - mette a fuoco determinati problemi o situazioni di carattere sociale e civile offrendone una lettura e un’interpretazione alla luce della dottrina sociale della Chiesa. Quella che chiamiamo “dottrina sociale della Chiesa”, nel 1907, momento iniziale delle Settimane sociali, poteva contare soltanto sull’enciclica di Leone XIII Rerum Novarum, uscita da pochi anni. Successivamente si è però arricchita di molti altri documenti del Magistero, che offrono prospettive e proposte per affrontare i problemi e le questioni sociali emergenti. Queste Settimane sociali, evidentemente, si rivolgono anzitutto ai cristiani, a coloro cioè che si riconoscono nel Magistero della Chiesa. E tuttavia, dal momento che affrontano temi concreti che sono comuni a tutte le persone che vivono l’attuale momento storico, esse hanno l’ambizione di costituire una proposta significativa e stimolante per tutti. Per questo, le proposte avanzate dalle Settimane sociali possono interessare ogni persona animata da spirito di ricerca e di capacità critica. Posso infatti dire – senza timore di essere smentito – che quanto è proposto dalla dottrina sociale della Chiesa si presenta spesso assai più saggio e profondo rispetto a tante altre proposte che si trovano in giro per il mercato della pubblica opinione.

 

Lei è Vescovo a Vittorio Veneto dal 19 novembre 2007, quindi sostanzialmente siamo all'11o anno... Come si è evoluta la scelta delle tematiche da approfondire nella settimana sociale? Nella programmazione si tiene conto della situazione attuale e presente del Paese? della Regione?

Andando a ritroso, a esaminare il cammino delle tematiche di questi 11 anni, si può notare che tornano con insistenza alcuni argomenti: a) anzitutto il tema della democrazia: come si sta vivendo la democrazia in questo momento; la corretta laicità dello Stato; la partecipazione dei cittadini; il ruolo dei partiti... Si tratta di capire il modo con cui i cattolici sono chiamati ad essere presenti alle questioni attuali, in quanto cittadini all’interno di una democrazia reale e non solo nominale; b) il tema del bene comune, e cioè l’obiettivo che l’azione sociale e politica deve porsi e le modalità con cui oggi lo si individua e lo si persegue; c) il tema del lavoro, del mercato, del rapporto con la giustizia: temi cioè che danno contenuto e consistenza al bene comune; d) il tema dell'ambiente e della salvaguardia del creato, senza del quale non c’è futuro per nessuno. Quindi possiamo dire che, nel tempo, si è cercato di sintonizzarsi sulle questioni fondamentali che maggiormente interpellavano il nostro vivere sociale e civile. Innanzitutto il quadro generale ossia quello della democrazia, poi l'obiettivo di un agire sociale, che è il bene comune; in terzo luogo gli strumenti e gli elementi che danno concretezza a questo bene comune: il lavoro, il mercato, i rapporti della giustizia sociale, civile; e, infine, la condizione perché ci possa essere un futuro: la salvaguardia dell'ambiente. In questo senso mi pare di poter dire che, anche senza un disegno preordinato, si è trattato di una fedeltà reale al tempo che viviamo; di un cammino, magari non lineare, ma molto attuale, attento e vigile sulla situazione presente.

 

Negli inviti ufficiali delle quattro serate, è sottolineata la sua presenza all'incontro di Conegliano all'auditorium Toniolo su un tema molto dibattuto in questa fase storica in Italia. Si parlerà di populismo e sovranismo. Potrebbe sintetizzare il suo pensiero su queste due categorie?

Da quanto ho visto, non mi pare che ci sia una definizione universalmente condivisa sul termine “populismo”. Io mi sono fatto questa idea: dalla parola originaria “popolo” derivano sia populismo che popolare, due parole simili, ma molto diverse. Direi che popolare è un dato, una realtà oggettiva. Per esempio si usa dire: “un’espressione popolare”, “una musica popolare”, “una festa popolare”... Se ci pensiamo, si tratta di realtà oggettive, che esprimono lo spirito, la storia, la tradizione di un determinato popolo. Invece populistico - che deriva da populismo - esprime un dato soggettivo, precisamente una convinzione. Si tratta della convinzione (di una persona o di un gruppo) di essere gli unici a conoscere, interpretare o rappresentare in maniera giusta i sentimenti, i desideri, le attese e addirittura il bene del popolo. Queste persone infatti, per giustificare la loro azione e le loro scelte, fanno sempre riferimento al popolo, di cui sono convinti di essere gli unici interpreti fedeli. Ma dove si fonda questa convinzione di conoscere, di interpretare, di rappresentare il popolo? A volte, su un carisma personale. Guardando al passato, pensiamo ad un personaggio indicato come l’emblema del populismo, cioè l’argentino Juan Peron, ma anche a Benito Mussolini, o ad altri cosiddetti “uomini forti”, che in qualche modo erano convinti di interpretare e rappresentare il bene del popolo. Oltre che sul carisma personale, il populismo può poggiarsi sul fatto di aver ottenuto la maggioranza dei voti alle elezioni oppure – oggi - sul consenso ottenuto dalla rete. Ebbene, come quasi tutte le parole che finiscono col suffisso “ismo”, anche il populismo contiene in sé una buona dose di ideologia, cioè di un pregiudizio che fa fatica a confrontarsi con altre posizioni, come deve avvenire in democrazia. Pertanto, come ogni ideologia, anche il populismo rischia di andare avanti con gli occhi chiusi e quindi di creare dei guai seri per quel popolo che pure intende aiutare. Il populista non è automaticamente una cattiva persona: può essere una persona buonissima, magari animata da grandi ideali. Il guaio è che non ascolta nessuno. È interessante la definizione che ha dato il Papa in merito, in un discorso tenuto a braccio: «Oggi sono di moda i populismi, che non hanno nulla a che vedere con il “popolare”. Il popolare è la cultura del popolo che si esprime nell'arte, nelle scienze, nella festa: ogni popolo fa festa a suo modo. Ma il populismo è il contrario: è la chiusura in un modello: “Siamo chiusi, siamo noi soli”, e quando si è chiusi non si va avanti». Il sovranismo (anch’esso un termine che finisce in ismo) è la conseguenza del populismo. E’ l’esasperazione di un concetto giusto, cioè la sovranità (nazionale). Poiché però il populismo quasi inevitabilmente cade nel nazionalismo, la sovranità diventa chiusura, precisamente diventa “sovranismo”. Ripeto: non si tratta di giudicare buoni o cattivi. Non ho difficoltà a credere nella buona fede di chi difende queste posizioni. Penso che siano animati dal desiderio di fare il bene del popolo. Il problema è che possono prendere degli abbagli che poi il popolo stesso pagherà a caro prezzo. E la storia ce lo dimostra abbondantemente.

 

 

A 100 anni dall'appello di Don Luigi Sturzo "Ai liberi e forti", in che senso ancora oggi è attuale quel messaggio?

D. Luigi Sturzo visse in un momento in cui il sistema politico italiano era bloccato tra due posizioni, quella liberale e quella socialista. La sua intuizione fu quella di proporre ad una forza (quella rappresentata dai cattolici, che fino a quel momento era stata fuori dal gioco parlamentare) di rientrare in campo, portando delle risposte concrete a problemi concreti. Qualche giorno fa l’editorialista E. Galli Della Loggia sul Corriere della Sera del 18 gennaio esaminando l'appello di Sturzo osservava che esso si caratterizzava per il fatto di essere tutt’altro che idealistico, ma realmente con i piedi per terra. L'appello di Sturzo, rileva Galli Della Loggia - è riconducibile ad un centrismo democratico-liberale, ben piantato sui “saldi principi del cristianesimo” e molto attento alla giustizia sociale, senza essere rivoluzionario. Il merito dell’appello fu di affrontare i problemi reali che c'erano in quel momento storico indicando una strada realmente percorribile. Credo che proprio in questo stia la sua attualità.

 

Anche il tema che conclude la settimana sociale a Motta di Livenza ossia "la stretta via dei cattolici in politica" è accattivante... Cosa può dirci nel merito?

La realtà che viviamo oggi è molto diversa da quella in cui si pose d. L. Sturzo, perché, a differenza di cento anni fa, noi veniamo da una esperienza molto lunga di cattolici in politica, che – come ricordiamo - ha dato vita anche ad un partito, la Democrazia Cristiana. Nonostante oggi – da più di qualche parte - si rimpianga l’esperienza di questo partito dei cattolici, bisogna anche dire che è tuttora viva, nell’opinione pubblica, una specie di “damnatio memoriae”, dovuta al modo con cui questo partito si è poi disciolto, concretamente al legame con “tangentopoli”. Questo fatto ha creato un'ombra, che ancora oggi condiziona, in modo pesante, la questione se si possa o si debba fare un partito unico dei cattolici. Certamente ci si interroga sul come debbano porsi in politica, oggi, i cattolici. Molti rievocano e auspicano un partito dei cattolici. Su questo argomento io non ho certezze. Francamente lo ritengo molto problematico soprattutto per il motivo appena ricordato: i cattolici - quando erano in campo - hanno fatto cose, a mio avviso, molto buone; purtroppo non tutte. La conclusione drammatica costituisce, come dicevo, un grave condizionamento. In secondo luogo, occorre essere consapevoli che l’esistenza e l’unità di un partito dei cattolici sono state in larga misura rese possibili dalla presenza in Italia di una forte Partito comunista. Se non ci fosse stata la “forza di compressione” costituita dal Partito comunista, le anime fortemente diverse che componevano il partito dei cattolici sarebbero rimaste unite? Difficile rispondere di sì. In ogni caso, le posizioni politiche dei cattolici sono oggi assai diverse: credo che sia lecito dubitare della reale possibilità – al di là delle buone intenzioni – di convogliarle tutte in un unico partito. Credo vada ripresa e incoraggiata la presenza dei cattolici in quello spazio che negli anni 80 padre Bartolomeo Sorge chiamava il pre-politico, ossia l’ambito sociale e civile. Lì possono essere sicuramente fatte delle proposte e delle iniziative concrete, che condizionino positivamente anche la vita politica. Ma penso anche alla presenza di cattolici nei vari partiti. Pur essendo una presenza non facile - probabilmente meno facile di quando c'era la Democrazia Cristiana – credo che essa possa costituire un contributo valoriale positivo e portare anche una parola e delle proposte, che possono diventare iniziative preziose.

 

Migranti e accoglienza nella nostra diocesi...

In questo momento viviamo una situazione di stallo sulla questione dell’accoglienza di immigrati nella nostra diocesi. In questi anni la nostra diocesi attraverso vari centri di accoglienza sparsi in tutto il territorio si è fatta carico di circa 200 richiedenti asilo. Lo stallo a cui facevo cenno deriva dal fatto che da un lato è diminuito o addirittura cessato l'arrivo di nuovi richiedenti asilo; dall'altro non si sa con certezza che fine faranno le persone che già sono qui, quando verrà accolta o rifiutata la loro richiesta. Il grosso timore è che quando saranno dimessi dai centri di accoglienza, dove erano stati accolti, perché non hanno più diritto di rimanervi, di fatto possano rimanere nel territorio, ingrossando però il numero degli irregolari. Trovandosi privi di qualsiasi garanzia e di qualsiasi protezione, potrebbe, purtroppo, capitare che qualcuno, per sopravvivere, possa cadere in azioni illegali. Stiamo cercando di capire come sia possibile aiutare e sostenere questa situazione. Molti di loro già lavorano. Per esempio tra quelli che sono tuttora nella caserma Zanusso a Oderzo, più di 150, lavorano, in modo regolare, nelle aziende agricole del territorio. Se dovessero essere dimessi, probabilmente diverrebbero clandestini, con tutte le conseguenze negative che potrebbero derivare. pietro.panzarino@oggitreviso.it

 


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