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28 marzo 2024

Vittorio Veneto

I TREVIGIANI SECONDO CORONA

Galantuomini, ma lontani da (suo) mondo. Ecco come ci vede lo scrittore che fa cantare le manére

| Emanuela Da Ros |

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| Emanuela Da Ros |

I TREVIGIANI SECONDO CORONA

Gli ho chiesto se è innamorato.
Eravamo lì a Erto, nel bar Stella, dove gli avventori (molti, non tutti) bevono un gotto di rosso al banco, senza sedersi, e parlano in ertano che non si capisce una mazza. E dove Benedetta, la ragazza che sta dietro il banco (“la più pallida del paese”, come si descrive sorridendo) anche se “cala il caffè” o mesce il vino è laureata e conosce almeno due lingue.

Ho chiesto se è innamorato a Mauro Corona. E, a dire il vero, mi sono quasi pentita di avergli fatto quella domanda perché, all’inizio della chiacchierata, lui mi aveva rimproverato per un sacco di cose (“Ma non li leggi i messaggini sul telefono? Te ne avevo mandato uno per spostare di un’ora l’appuntamento”; “Non voglio foto nel mio laboratorio”; “Non scriverai mica con quella penna, vero? e perché non ti sei portata un registratore?”).

E invece Mauro Corona mi ha risposto (forte, che al bar Stella si sono girati in tanti)  “che l’amore è sacrificio, è silenzio, è donazione fino alla morte.” Mi ha detto: “Io non ho mai amato perché sono un uomo onesto. Nessuno sa amare. L’amore non è possesso, gelosia; l’amore è accettazione. Se ami un uomo e lo vedi con un’altra, dovresti comprendere il suo desiderio. Ma nessuno ama così; nessuno ama davvero. Sai qual è la verità? In giro sono tutti eroinomani d’affetto. Io però amo i miei figli (Mauro Corona ne ha quattro e il più giovane, Matteo, è l’illustratore – bravissimo  - delle copertine dei suoi libri): per loro darei la vita”.

Intervistare Mauro Corona non è facile (e Matteo, suo figlio, si sbaglia quando dice che è il contrario: che a intervistare Mauro sono capaci tutti e che il difficile è intervistare i caproni”).  Intervistare Corona (la similitudine probabilmente non gli piacerebbe) è un po’ come salire l’ultimo pezzo di sentiero “erto” che porta a un rifugio. E’ il tratto che ti sembra più faticoso, che ti richiede più fiato e tenacia, ma anche quello che – una volta arrivato in cima - ricordi con più intensità e piacere.

Corona, che analogie ci sono tra la scultura e la scrittura?
In entrambe, come nell’arrampicata e nella vita, il comune denominatore è l’operazione del togliere. Nella scrittura, diceva ?echov, bisogna togliere parole; nella scultura bisogna togliere legno; nell’arrampicata movimenti. E nella vita il superfluo. Nella vita, quando hai cibo, affetto, una famiglia hai tutto quello che ti è necessario. Il 90 per cento è roba in più. E invece, qual è la tendenza dominante? Quella di accumulare oggetti che non servono a nulla, che sono repliche di oggetti che possediamo già.Accumulandoli, siamo diventati noi stessi oggetti al servizio di oggetti. Io, per quanto mi riguarda, ho regalato tutto il superfluo. E comunque anche il troppo affetto ti spegne. Carlo Michelstaedter, riprendendo Eraclito, diceva che “la lampada si spegne per mancanza d’olio, ma per troppo olio viene soffocata”.

Qual è il suo artista preferito?
Murer, perché parlava con le piante e le faceva diventare uomini e donne. Ma anche Manzù, Messina; Pietro Annigoni per l’arte figurativa.

Che pensa degli artisti contemporanei? Cattelan, per esempio.
Mi fanno pietà. Cattelan è un baro.

E tra gli scrittori, chi ama di più?
Tra i poeti viventi Zanzotto. Ma tra i poeti che mi hanno dato di più ci sono Whitman e Esenin. Tra gli autori in prosa, Borges, Jean Giono, Platonov…

Nel suo ultimo libro “Il canto delle manére” (Mondadori), lei scrive: “Tagliare legna è mestiere pericoloso”. Quali altri mistieri sono pericolosi?
Tutti i mestieri possono comportare dei rischi. Tutte le attività umane. Anche dormire può essere pericoloso…se dormi male, rischi l’infarto. E’ tutto pericoloso quando si è vivi (cita Borges e racconta come a lui, che temeva la morte, gli avesse tappato la bocca la sua lavapiatti convinta che “l’unica condizione per morire è quella di essere vivi”).

Mauro Corona vivrebbe in un posto diverso da Erto?
No. Potrei stare in qualunque città o paese volessi oggi, anche a Ortisei in Valgardena, dove si respira ovunque l’odore del cirmolo. Ma io voglio vivere qui. Dove ho sofferto. Bisogna stare nei posti dove si è sofferto.

Il monte Toc continua a cadere?
Il Toc è già caduto. E’ pietra morta.

Questa conversazione verrà letta nella Marca trevigiana. Quanto è distante Erto da Treviso, dal Veneto?
Treviso è alla fine del mondo, per noi. A Erto non siamo nemmeno friulani, siamo ladini: abbiamo una lingua, un’identità nostra. Siamo atei di confini. Qui i trevisani sono visti con qualche pregiudizio: sono “quelli che portano via i funghi”. Invece i trevisani sono galantuomini. Gli ertani devono molto ai trevisani: nei tempi magri, oltre il dopoguerra i venditori ambulanti di qui sopravvivevano anche grazie ai prodotti che riuscivano a vendere nel trevigiano.

Che pensa di Gentilini?
Non apprezzo le sue esternazioni tra il picaresco e il razzista; non mi piacciono le battute sui…fucili da caccia o l’idea di ridipingere le panchine di verde. Ma Gentilini qualche ragione ce l’ha. Non bisogna essere troppo buonisti. C’è bisogno di far rispettare l’ordine ed è giusto che chi non lavora vada fuori dai coglioni.

E la posizione di Gentilini sui gay?
Ah, be’: quello è un problema suo.

Zaia?
Zaia mi piace. Lo conosco personalmente. Zaia ha una faccia e un parlare puliti. E ci sta provando a far del buono, anche nel settore trascurato dell’agricoltura.

Che pensa dell’idea di insegnare il dialetto nelle scuole?
Cercare di salvaguardare il dialetto è importante, ma non è certo una questione prioritaria. Fa ridere il dibattito del dialetto nelle scuole. La verità è che la scuola è vecchia, noiosa, una rottura di palle. E la colpa non è di questo o quel ministro. La scuola andrebbe reimpostata in toto: accanto alle nuove tecnologie i ragazzi dovrebbero riprendere la capacità di fare, riprendere l’uso delle mani. Essere artigiani, guide alpine…I ragazzi oggi non sanno nemmeno accendere un fuoco.

Ho aperto con l’amore; chiudo con la paura. Cos’è per lei la paura?
La paura è necessaria. Se uno non ha paura è un povero diavolo. Il coraggio non esisterebbe se non ci fosse la paura. Il fatto è che oggi la gente sta bene nel male e la paura, il panico, è una dimensione che parecchi non vogliono affrontare. Nè superare.

Alla fine (o è un inizio?) del colloquio con Mauro Corona, i rimproveri, rimbotti più che altro, sono ruzzolati giù dal ghiaione della diffidenza iniziale. Corona mi apre la porta del suo laboratorio (sul vetro, in bianco e nero, la foto di un vecchio e la scritta: Me nonu), mi apre le ribalte delle scrivanie su cui scrive, e che ha realizzato lui. Mi apre i quaderni neri, legati insieme da un filo di corda, in cui con un carattere stampatello che pare tipografico scrive i suoi libri (13 quaderni per Storia di Neve; 8 quaderni per Il canto delle manére). Poi mi regala una delle penne (ne ha un barattolo pieno) che usa lui per scrivere (Uni-ball micro deluxe, Mitsubishi).

“E’ questa la penna che devi usare -mi dice (l’improbabile maxi biro dell’Upim con cui avevo preso appunti proprio non gli andava) – non quella cosa lì. E poi: quando ti decidi a darmi del tu?” Be’, a questo punto, mica è facile….tornare giù dal rifugio e rifare il sentiero inevitabilmente in discesa. Anche perché non ho mai apprezzato come ora la poesia “Istanti” di Borges che Corona ha fissato con delle puntine su una scultura-non-finita. “…se potessi tornare indietro, cercherei/ di avere soltanto istanti buoni./ Che, se non lo sapete, di questo/ è fatta la vita, di istanti: non perdete l’adesso….”

 


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Emanuela Da Ros

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