A ventotto anni dalla scomparsa Unicef ricorda Audrey Hepburn
Nel 1993 fa ci lasciava una delle "Goodwill Ambassador" più impegnate nella storia dell’Unicef, che fece sua la battaglia contro la povertà nei paesi in via di sviluppo
| Ilaria Frare |
ROMA - E da quel giorno non si è più fermata: in pochi anni ha attraversato Turchia, Venezuela, Ecuador, Guatemala, Honduras, El Salvador, Messico, Bangladesh, Thailandia, Vietnam e Sudan visitando i diversi progetti del Fondo per vaccinare, proteggere, fornire acqua e servizi igienico sanitari ai bambini poveri. Ha portato la sua battaglia fino al Congresso negli Stati Uniti, partecipato al Summit Mondiale per l’Infanzia: “Aprite le vostre braccia per stringere il maggior numero di bambini, amarli e proteggerli come se fossero vostri” risuonano ancora oggi le sue parole, eco della sua eccezionale generosità.
Nel 1989 viene nominata Goodwill Ambassador: “Posso testimoniare cosa significhi l’Unicef per i bambini, perché sono stata fra quelli che hanno ricevuto cibo e soccorso medico subito dopo la Seconda Guerra Mondiale” racconta l'attrice, “L'ultimo inverno è stato il peggiore di tutti. Ormai il cibo scarseggiava […] io ero molto, molto denutrita. Appena dopo la guerra, un'organizzazione, che poi è diventata l'Unicef, è subito arrivata con la Croce Rossa e ha portato aiuti alla popolazione sotto forma di cibo, medicine e vestiti. Tutte le scuole locali furono trasformate in centri di soccorso. Io ero uno dei beneficiari insieme agli altri bambini. Conosco l'Unicef da sempre".
L’incredibile impegno di Audrey Hepburn a favore dei meno fortunati non si è mai interrotto nemmeno nei suoi ultimi anni di vita quando, nonostante la grave malattia che l’aveva colpita, ha voluto continuato ad incontrare i bambini dell numerose missioni nel mondo. “Voglio salutare Audrey Hepburn e la sua famiglia con una sua frase oggi più che mai attuale, vista la pandemia di COVID-19 che da quasi un anno ha stravolto le nostre vite” conclude Carmela Pace, Presidente di Unicef Italia “non si può aspettare che una crisi sia risolta per prendersi cura dei problemi dei bambini. Loro non possono aspettare.”.