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22 luglio 2024

Valdobbiadene Pieve di Soligo

Ah! La Pievigina! Quanto ho amato quella squadra!

Era ancora "un calcio a pane e salame da un certo punto di vista ma altrettanto professionale dentro al campo”. Un racconto quello dell’allenatore Luca Gotti – oggi al Lecce - che è iniziato nel 2000 allenando la Pievigina…

| Federica Gabrieli |

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| Federica Gabrieli |

luca gotti

“Chi sa solo di calcio, non sa niente di calcio. Allenare una squadra richiede qualcosa di più della semplice conoscenza delle regole del gioco”. Parole di Luca Gotti, allenatore storico della Pievigina. Originario del Delta del Po Luca ha alle spalle una storia consueta e unica allo stesso tempo, che abbraccia valori umani prima ancora che sportivi; una filosofia applicata al calcio e una eccellente conoscenza tattica, applicata alla quotidianità. Un tecnico vestito di nobile eleganza e discrezione, preparato, capace, competente, non interessato ai colpi di testa e agli inutili protagonismi. Un insegnamento fuori e dentro il campo, quello di Luca, che concepisce l’allenamento in una maniera personale.

 

Luca, dove hai trascorso l’infanzia?

Sono un “basso” polesano, nato e cresciuto sotto la sponda del fiume grande, con un’infanzia semplice, rurale, contadina. Mio padre ha fatto l’operaio per quarantacinque anni presso lo zuccherificio dell’Eridania di Contarina: vivevamo proprio nelle case dello zuccherificio. Lì ho trascorso un’infanzia genuina a tratti cruda, libera tuttavia e formativa proprio perché cresciuto in mezzo ai campi e alla natura. Alla soglia della maggior età c’è stato un andirivieni con la città di Padova dove avevo iniziato gli studi presso l’Isef. Per un paio di anni ho giocato nel Contarina in serie D poi, andando a giocare fuori, nello specifico a San Dona di Piave, gradualmente mi sono allontanato dalla mia terra.

 

A quale età è iniziata la tua carriera calcistica da professionista?

Ho giocato quasi tutta la mia carriera da calciatore in serie D. Ho toccato il professionismo ma per un attimo a San Dona di Piave ed ho rifiutato più volte di andare a giocare in serie C proprio perché distante da casa e io non volevo allontanarmi troppo dalla mia terra. Il calcio era un mezzo che mi permetteva di studiare agevolmente; più tardi verso i 27 anni ho maturato l’idea di voler fare l’allenatore e lì le cose sono cambiate.

 

In che senso?

Sai il mio rapporto con il calcio era di divertimento nel giocare, non ho mai avuto una morbosità, non leggevo articoli che parlavano delle partite, non le guardavo….e nel momento in cui ho preso consapevolezza che questa poteva diventare una professione, ho visto le cose con una prospettiva diversa. Dalle foci del Po alle colline del prosecco. E’ già da un po' di anni che hai trovato dimora con la tua famiglia nell’alta Marca, precisamente a Montebelluna.

 

A quale territorio ti senti più legato?

Montebelluna è il posto dove ho smesso di giocare a calcio e ho fatto crescere i miei figli; mi sembrava la dimensione perfetta dal punto di vista dei servizi e della socialità. Sono contento di questa mia scelta proprio perché mi spaventava sia la grande città sia l’eremo. Nonostante torni pochissimo nella mia terra, considero il Delta del Po la mia casa e ogni tanto me lo godo a modo mio, quasi sempre in solitudine, per assaporare alcune piccole cose che ho dentro e che sono ancora là. Il Delta del Po, la provincia di Rovigo, il Basso Polesine che spesso sono vituperati perché considerati brutti dal punto di vista socio economico, in realtà sono una zona con delle potenzialità enormi, di una bellezza particolare.

 

Una carriera fatta di piccoli passi la tua, un lavoro dietro le quinte fatto di approfondimenti esperenziali, di conoscenze consolidate negli anni, tradotte e portate fuori e dentro il campo. Tuttavia hai sempre cercato un ruolo secondario, perché?

Questo atteggiamento fa parte della mia indole: non mi piace la copertina e l’apparire. Ma la vita ti sorprende per certi versi, quindi ti trovi tuo malgrado a vestire dei panni che non ti appartengono. C’è una squadra in particolare che hai allenato e che ti è rimasta nel cuore? Per come sono fatto io mi lego molto alle persone e quindi in qualsiasi posto vada e a prescindere dall’esperienza calcistica, creo delle relazioni con le persone e quindi mi rimane quella esperienza addosso di connaturata positività. Quindi sono stato bene ovunque indipendentemente da come sono andate le cose. Questo è il mio modo di vivere sebbene ho sofferto un po' di più le grandi città come Milano, Londra; quelli sono posti che mi hanno dato meno rispetto a città a misura d’uomo .

 

Che differenze trovi negli atleti di oggi rispetto a una volta durante l’allenamento e le partite?

Questa domanda dovrebbe essere contestualizzata e cioè dovrei pensare a com’erano i ragazzi italiani trent’anni fa e come sono i ragazzi italiani di adesso. Mi capita di trovare oggi dei ragazzi stranieri che vengono da paesi particolari che hanno le stesse modalità che avevano i nostri trent’anni fa. Per eccellere nello sport spesso bisogna aver fatto dei sacrifici, aver lottato in un certo modo, aver rinunciato a tante cose. Tutto ciò era una cosa normale qualche anno fa e invece adesso i nostri ragazzi che sono un po' più viziati fanno fatica a rinunciare alle cose, andando alla ricerca di godimenti immediati. Sono disposti a sacrificarsi poco, non si danno dare fare per risolvere un eventuale problema e questo mi dispiace. Le dinamiche sono un po' cambiate per i nostri ragazzi sebbene ritrovo quello spirito di sacrificio e perseveranza in tanti giovani che provengono da paesi diversi dal nostro.

 

Cosa ne pensi del mondo calcistico di oggi? Ovvero negli anni i cambiamenti all’interno dei club (allenamenti, scelte giocatori, business...) ha portato a più attriti, frenesia, distacco dall’allenatore, meno passione?

Credo che la risposta debba essere divisa in due perché da una parte c’è il gioco del calcio, che dal mio punto di vista rimane bellissimo ovvero undici persone che ne sfidano altre undici dentro quel campo, con quelle regole, con del contatto, sfida, potenza, strategia, tattica, tecnica, fanno del calcio uno sport bello e per questo molto seguito, popolare, e questo rimane. Quello che ruota attorno al mondo del calcio cambia in continuazione e dove ci son tanti soldi come nelle massime serie A ci sono delle dinamiche spesso insopportabili. Bisogna dire che come sta succedendo nel mondo, la ricchezza va nella direzione di un minor numero di persone che detengono la maggior parte delle risorse e sta succedendo una cosa analoga nel calcio ovvero quasi tutti i soldi che girano intorno a questo sport vanno verso l’altissimo livello e tutto il resto del sistema calcio non riesce a fruirne; quindi ci sono delle dinamiche molto diverse nei posti dove girano tanti soldi rispetto al calcio di categorie inferiori.

 

I risultati in campo parlano. Se dovessi ripercorrere negli anni il tuo operato da allenatore, c’è qualcosa che ti rimproveri e in cosa ti elogi?

Di sicuro ho sbagliato in tante scelte, in tanti incroci ho fatto la scelta sbagliata e sarebbe stato il caso di andare in altri posti ma non ho l’ottica di guardarmi molto indietro: quanto fa parte della vita serve in qualche modo; sicuramente anche esperienze che sono state teoricamente negative mi hanno portato qualcosa che mi ha rafforzato e consentito successivamente di affrontare con uno spirito diverso e con successo altre sfide.

 

Per essere un bravo giocatore che doti bisogna avere?

Principalmente grande forza mentale. Ho visto nel tempo che l’aspetto mentale è quello determinante che supera di gran lunga gli aspetti tecnici e fisici. Faccio un esempio: ci sono tanti giocatori nelle categorie inferiori che avrebbero le qualità tecniche e fisiche per giocare in serie A ma non ci arrivano o non ci rimangono per molto in virtù di atteggiamenti mentali. Ecco quindi credo che l’aspetto mentale sia determinante.

 

E per essere un bravo allenatore?

E’ complicato dare una risposta esaustiva in poche righe, dico che la qualità più grande di un allenatore non sono le nozioni calcistiche, non è la conoscenza del gioco, che ti rende un buon allenatore bensì la personalità proprio perché non puoi allenare se non hai una personalità forte sebbene essa può essere di diverso tipo ovvero quella del generale che comanda tutti in maniera militaresca e che si impone con autorità sugli altri e c’è chi sceglie la via dell’autorevolezza. Però non si può prescindere dalla quotidianità che affrontiamo in quest’ambito che è piena di complicazioni sempre, di situazioni da risolvere e che impattano molto sulle persone che ci circondano.

 

Si dice di te che sei un uomo umile, semplice, preparato, galante, equilibrato, determinato. Ti rivedi in questo?

E soprattutto la dote che ti appartiene di più qual è? In realtà sono anche pieno di difetti. Alcune di queste caratteristiche cerco che facciano parte della mia vita e penso che tante di queste sia in positivo che in negativo siano dovute all’empatia, al cercare sempre e di mettermi dalla parte dell’altro. Questa cosa mi aiuta per tanti versi e aiuta le persone che si relazionano con me per tanti versi. Tuttavia per il lavoro che faccio non è sempre una dote perché avendo a che fare con tante persone, cercare di mettersi dalla parte dell’altro mi ha portato spesso a non riuscire ad imporre delle cose che erano fondamentali.

 

In varie tue interviste parli di un atteggiamento propositivo. Cosa intendi?

Di sicuro fa parte della mia vita l’ottica del miglioramento ovvero il cercare il migliorarsi e questo vale sia dal punto di vista professionale, caratteriale e relazionale quindi il comportamento propositivo è non cercare di fermarsi sulla posizione attuale, cercando di continuo di migliorare.

 

C’è una squadra che vorresti allenare e che non hai ancora fatto?

Ce ne sono due ma meglio rimangano segrete, ovvero una dove sono già stato e dove mi piacerebbe ritornare (tra l’altro ne ho avuto di recente la possibilità ma non è stato possibile in virtù di una parola che avevo già dato) e un’altra che mi piacerebbe allenare ma non rivelo. Aggiungo che un pensiero ricorrente e che persiste già da una ventina d’anni dentro di me è che mi piacerebbe moltissimo andare ad allenare a Majorca ma non necessariamente nella prima squadra anche negli esordienti, giovanissimi o pulcini.

 

Nel 2000 sei stato allenatore della Pievigina. Che ricordi hai di quella esperienza?

Ne ho tantissimi, più di altre esperienze che sono venute dopo e sulla carta anche più prestigiose. Ricordo quell’esperienza con affetto e con una filigrana di malinconia ma allo stesso tempo gaiezza proprio perché è stata la mia prima squadra; tra l’altro un’esperienza decisamente formativa a livello sportivo proprio perché allenavo ragazzi più vecchi di me e l’ottica era ancora di un calcio pane e salame da un certo punto di vista ma altrettanto professionale dentro al campo.

 

Un rinnovo fino al 2026 come allenatore del Lecce. Com’è stata questa esperienza? Hai trovato delle difficoltà?

Le difficoltà sono connaturate con quello che io faccio, però sono stati mesi di grande soddisfazione professionale che mi permettono un orizzonte un po' più a lungo termine sebbene sappiamo che nel calcio soprattutto di alto livello basta pochissimo perché le cose cambino sia in positivo che in negativo. Sono consapevole di questo ma ho trovato comunque un club ed un territorio estremamente intrecciati tra loro nell’accompagnare positivamente le menti e le sorti della squadra, questo mi è sembrato uno degli elementi più importanti da prendere in considerazione riguardo alle mie scelte.

 

Hai qualche rimpianto nella tua vita professionale? Ovvero invece del calciatore ti sarebbe piaciuto fare l’astronauta, il pescatore…

Avrei potuto facilmente arrivare ad ottenere la licenza per fare cose più diverse ed invece faccio l’allenatore di calcio. Questa professione mi fa sentire vivo perché le emozioni che provo quotidianamente sono molto forti sia in positivo che in negativo e questa cosa credo sia difficile da provare in tante altre professioni. Se devo rispondere letteralmente ad una cosa che non ho più potuto fare e che da molto giovane praticavo con molto piacere era il velista. Ecco il non aver fatto il velista ovvero di non aver potuto andare in giro con una barca a vela per il mondo è un piccolo rimpianto.

 


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