Un medico alpinista sul tetto del mondo
Il medico vittoriese Alessandro Lena è appena tornato da una spedizione scientifica sull’Himalaya. Una “missione” che gli ha permesso di coniugare la passione per la montagna con quella della medicina
| Emanuela Da Ros |
Trentuno anni compiuti lo scorso primo luglio, Alessandro Lena dal 1 novembre prossimo sarà uno dei medici di medicina generale del De Gironcoli. Una passione, quella per la medicina, che ha intuito fin dal liceo Flaminio (anche grazie al fratello Enrico, anestesista) e che gli ha fatto superare brillantemente gli studi a Trieste (con una tesi sulla valutazione ecoassistita dei pazienti con scompenso cardiaco), lavorando per un periodo anche nel reparto di chirurgia generale ad Haifa, Israele. Da quattro anni lavora come sostituto nella Medicina generale del De Gironcoli di Conegliano, ma dal 2021 al luglio del 2022 ha anche operato come medico USCA durante la pandemia da Covid -19.
Dottor Alessandro Lena, la tua esperienza sull’Himalaya potrebbe essere definita “una spedizione scientifica ad alta quota”. Eppure la definizione non chiarisce ciò che realmente hai compiuto, come ricercatore, salendo oltre i 6.500 metri di una delle cime più inaccessibili con zaino, tenda, corde, attrezzatura da scalatore e un ecografo… Che altro hai portato con te?
La componente scientifica della spedizione è sempre stata il cardine e il primum movens di quest’esperienza, che non si è mai posta come obiettivo quello di arrivare in cima “a tutti i costi”, quanto piuttosto di portare a casa risultati da un punto di vista di ricerca in alta quota. La cima del Kedar Dome è a 6800 metri, noi siamo arrivati fino a 6600. L’ascesa progressiva fino a Campo 2 si prestava molto bene per gli studi che andavamo a fare, e nonostante la cima non fosse così inaccessibile da un punto di vista alpinistico, il summit push di 1200 metri, a 6000 metri di altitudine, la rendeva sicuramente insidiosa. Tenda e corde per fortuna sono stati trasportati dagli sherpa: con noi portavamo tutto il materiale personale, tecnico e scientifico, quindi il mio ecografo portatile, fonendoscopio, sfigmomanometro e pulsiossimetro, per la misurazione dei parametri vitali.
Perché questa spedizione?
Quando mi è stata proposta l’opportunità di unire la passione per la montagna a quella della medicina la mia risposta è arrivata in meno di cinque minuti. Una volta letti gli studi rispettivamente delle università di Padova e Chieti ho proposto un ulteriore studio riguardo allo studio ecografico dei polmoni in alta quota. L’ecografia, nella forma soprattutto della POCUS (Point of Care Ultrasonography) è una metodica che da alcuni anni mi affascina e che uso routinariamente in ambulatorio, e che per fortuna si sta diffondendo sempre più anche nell’ambito della Medicina Generale. L’anno scorso ho acquistato un ecografo portatile, poco più grande di un telefonino, che uso abitualmente nelle visite domiciliari ma anche in ambulatorio, e che ho portato con me per gli studi in questa spedizione.
Chi ti ha sostenuto?
La spedizione è stata proposta dal dottor Giorgio Martini, farmacista della Val di Cembra (TN) e docente al Corso di Perfezionamento in Medicina di Montagna dell’Università di Padova. Da subito è stato chiaro che la spedizione sarebbe stata “a nostre spese”, senza sponsorizzazioni né universitarie né scientifiche. Tutti noi componenti della spedizione proveniamo comunque da un background di passione alpinistica e pertanto esaltati dall’idea di poter unire due grandi passioni, quella dell’alpinismo e quello della ricerca scientifica. L’Università di Padova ha messo a disposizione i laboratori per l’analisi dei risultati delle biopsie muscolari a cui ci siamo sottoposti prima della partenza e dopo il rientro, così come l’esecuzione della bioimpedenziometria, per valutare le modifiche della composizione corporea e della vascolarizzazione muscolare con la quota. L’Università di Chieti invece analizzerà i campioni di urine che abbiamo raccolto e conservato durante le fasi di ascesa e discesa della nostra spedizione, alla ricerca di proteine correlate con la modifica della pressione arteriosa in alta quota.
Da quanto ti preparavi? E come ti sei allenato?
La spedizione ha cominciato a prendere forma circa un anno fa, a fine 2023, quando siamo riusciti a formare la squadra. L’allenamento è sempre una cosa difficile, per queste quote si cerca di allenare il corpo a una resistenza fisica ma molto spesso quello che entra in gioco è una resistenza mentale, nella risoluzione dei problemi e degli imprevisti che a quelle altitudini diventano quotidiani. Per fortuna frequento la montagna sia d’inverno, con lo scialpinismo, che d’estate, con escursioni, corse e arrampicate, grazie al CAI e alla Scuola di Alpinismo di Vittorio Veneto, di cui faccio parte, e questo mi ha aiutato molto sia come allenamento fisico che mentale. Cercare di andare in alta quota anche qui in Italia ha sicuramente aiutato a capire e conoscere il proprio fisico e la propria risposta l'acclimatamento, che resta una peculiarità individuale e diversa in ognuno di noi, ma importantissima da conoscere se l’obiettivo è quello di salire quasi 2mila metri più in alto della più alta cima europea (il Monte Bianco).
Quando è stata effettuata la spedizione?
Siamo partiti il 13 Settembre da Milano e rientrati l’11 ottobre. Una volta a Delhi in 5 giorni abbiamo raggiunto Gangotri, punto di partenza del trek che in 4 giorni ci ha portato al Campo Base (4600m). Una volta lì si inizia con le rotazioni, prima al Campo 1 (4800), poi al Campo 2 (5600), fino a quando si è pronti per il push finale, fatto nella notte tra il 3 e il 4 ottobre.
Chi c’era con te?
Con me erano presenti Giorgio Martini (farmacista della Val di Cembra) Maria Grandesso (specializzanda di Anestesia e Rianimazione all’ospedale di Udine) e Romeo Uries (infermiere del Pronto Soccorso di Alba) Quali le condizioni in cui avete lavorato? Le condizioni meteo che abbiamo trovato per fortuna sono state splendide, arrivando giusto nel periodo post-monsonico. Abbiamo cercato di eseguire le ecografie del torace durante il giorno, in modo che in tenda non facesse troppo freddo a torace scoperto. La sera, quando il sole calava, l’escursione termica era davvero notevole, andando immediatamente sotto zero. Certo, la notte in cui siamo partiti per fare la cima, la temperatura non si è scostata dai -20 gradi; siamo partiti alle 23 e arrivati a 6600 m alle 8 di mattina, e lì, con la neve sopra al ginocchio e dopo aver fatto 1000 metri di dislivello, che a quella quota non sono così “banali”, abbiamo deciso per motivi di sicurezza di scendere e rientrare al Campo 2. Lì ho avuto modo di analizzare meglio il mio piede destro che presentava un principio di congelamento al terzo dito, che per fortuna la mattina dopo mi ha comunque permesso di scendere fino al campo base, e da lì fino a Gangotri (circa 30 km). Non è tuttora guarito, ci vorrà ancora qualche settimana, ma per fortuna si è limitato all’ultima falange del dito medio.
Avevate uno sherpa come guida?
La nostra guida, Sunny, era indiana e lavora appunto come guida d’alta montagna in India, conoscendo quei posti come le sue tasche. Con lui c’erano tre sherpa d’alta quota (nepalesi), fondamentali per i campi alti, nel trasporto delle tende e nel posizionamento delle corde fisse. Oltre a loro al campo base avevamo cuoco e aiuto cuoco, che non ringrazieremo mai abbastanza per averci fatto sentire a casa durante il nostro soggiorno in India. Ci tengo a precisare che gli sherpa sono diversi dai portatori, che invece ci hanno assistito nel trasporto del materiale da Gangotri fino al campo base, che sebbene di fondamentale importanza non presentano conoscenze alpinistiche. Ostacoli? L’incognita iniziale è stato forse l’ostacolo più grande. Come prima spedizione a una quota del genere, non sai mai cosa aspettarti, non sai mai come reagirà il tuo corpo e speri sempre che tutto vada per il meglio. Sei conscio che anche un’intossicazione alimentare o un occhiale da sole messo troppo tardi rischia di rovinare tutto; se da una parte cerchi di vivere tutto con spensieratezza godendoti ogni momento, dall’altro devi rimanere sempre con un livello di vigilanza alto per evitare di compromettere tutto con disattenzioni, come un piede messo male su un sasso della morena.
Le impressioni più belle, più esaltanti, di questa spedizione…
Porto negli occhi la meraviglia della natura che ho avuto la fortuna di vedere, ma anche tutte le persone che con me hanno condiviso le fatiche e le insidie quotidiane, in particolare la guida e gli sherpa, che reputo i custodi di una realtà che ai nostri occhi troppo spesso passa come un parco giochi dove sfoggiare la nostra tecnicità o le abilità alpinistiche. Condividere la loro cultura e restare fino a tarda sera a chiacchierare con loro rimane forse quello che di più importante porto con me da questa spedizione.
I risultati delle ricerche e studi compiuti sono già stati pubblicati? A cosa serviranno?
Ancora no, saranno analizzati dalle università nelle prossime settimane, così come faremo con i dati ricavati dall’ecografia. Quello che posso dire è che i nostri polmoni si sono comportati bene in quota, almeno dal punto di vista ecografico, rimanendo “asciutti” fino a 5600 metri, quota massima in cui sono riuscito ad eseguire l’ecografia. L’errore che spesso facciamo, quando parliamo di alta quota, è pensare solo ed esclusivamente all’Himalaya, quando le patologie acute e potenzialmente mortali che possiamo ritrovare a queste altitudini si possono riscontrare anche sulle cime delle nostre Alpi, visto che parliamo comunque di cime superiori ai 4000 metri. Gli studi sul tessuto muscolare saranno utili per capire come il muscolo si modifica in uno stato di ipossia, ovvero in carenza di ossigeno; ma se pensiamo alle cause di ipossia l’altitudine è solo una di queste. Allo stesso modo, se pensiamo a quante persone ipertese frequentano la montagna ogni giorno possiamo capire quali risvolti possa avere riuscire bene a capire quali modifiche biochimiche e ormonali ci sono alla base delle modifiche pressorie in alta quota per permettere a tutti di vivere la montagna in sicurezza. Per quanto riguarda l’ecografia polmonare, il monitoraggio dell’edema polmonare, condizione potenzialmente mortale che si ritrova in alta quota, e soprattutto la sua identificazione in una forma preclinica era il mio obiettivo principale. La profilassi eseguita con acetazolamide (diuretico) a partire da 3000 metri è stato forse uno dei motivi del nostro benessere a livello polmonare, ma questo lo vedremo meglio una volta analizzati bene i dati e con successivi studi che qualcun altro dopo di noi eseguirà, in modo da avere dati più consistenti.
Avevi con te il telefonino che però spesso non era utilizzabile. Come comunicavi con i tuoi familiari? con gli amici?
Dal momento in cui abbiamo lasciato Gangotri, per circa 3 settimane, non abbiamo avuto connessione. Non mi è stato possibile portare con me il mio satellitare perchè in India è vietato da diversi anni, per cui l’unica possibilità era chiedere in prestito il satellitare della nostra guida, con il quale mandavo un messaggio per aggiornare la mia ragazza, Lucrezia, sui nostri spostamenti e lei informava famiglia e amici. Sapevamo entrambi che no news, good news, ma l’ansia era comunque presente soprattutto nei giorni del summit push in cui, a causa di un messaggio che non è mai arrivato, non hanno ricevuto notizie per quattro giorni. Ci siamo impegnati per cercare di dare nostre notizie alternandoci almeno ogni due giorni. C’è stato qualcuno che ti ha frenato quando hai ipotizzato di compiere quest’impresa? E chi o che cosa invece ti ha indotto ad andare avanti? Per fortuna nessuno mi ha mai frenato. Quando l’ho detto ai miei genitori loro sapevano che io non lo facevo per chiedere un parere ma per comunicare una decisione già presa. Anche Lucrezia, che in questi mesi mi ha sopportato nella preparazione alla partenza, è sempre rimasta entusiasta sapendo quanto ci tenevo a unire la passione per l’alpinismo e per la medicina. Dall’Himalaya a breve approderai a Conegliano, al De Gironcoli, come medico di medicina generale.
Hai sempre voluto fare il medico? Anche quand’eri al liceo?
La volontà di fare medicina è nata all'ultimo anno di liceo e per fortuna è cresciuta di anno in anno senza mai spegnersi, grazie anche a mio fratello Enrico, anestesista, che un po’ mi ha aperto la strada e indicato il percorso da fare. La volontà di fare il medico di Medicina Generale invece è nata un po’ dopo, alla fine del mio percorso universitario. Dopo aver iniziato la specialità in Chirurgia Generale mi sono reso conto che la mia vera passione l’avevo vissuta durante il tirocinio dal medico di famiglia che avevo svolto proprio qui, a Vittorio, l’anno prima, dal dottor. Luigi Naibo. E così ho cambiato strada, iniziando nuovamente il percorso, un po’ travagliato per via della pandemia, che in tre anni mi ha portato a diventare medico di Medicina Generale. La conferma di aver fatto la scelta giusta l’ho avuta iniziando a lavorare come sostituto nella Medicina di Gruppo Integrata De Gironcoli a Conegliano, dove a breve aprirò il mio ambulatorio, nella quale ho trovato gli stimoli e le opportunità per attuare il tipo di medicina di famiglia che più mi appassiona.
Che studente eri da piccolo? da ragazzino?
Domanda difficile: la scuola per me ha sempre rappresentato tanto, ed è per me un calderone che deve insegnare a pensare. Non mi è mai piaciuto stare 12 ore al giorno sui libri, ho sempre pensato e lo sostengo tutt’ora che vale molto di più uno studente che arriva a un 7 o un 8 pur facendo mille altre attività, dallo sport alla musica, al teatro, piuttosto che quello che arriva al 10 non uscendo mai di casa. Ecco, la mia fortuna scolastica è stata trovare professori che apprezzavano chi faceva attività extracurriculari, che nel mio caso rappresentavano la maggior parte del mio tempo. Ringrazio anche il liceo perché il quarto anno l’ho fatto negli Stati Uniti, e la conoscenza dell’inglese che mi porto dietro da allora è riuscita ad agevolarmi in molte cose, compresa questa spedizione.
Domanda tecnica: come sta la montagna (in generale)? se fosse un tuo paziente…che paziente sarebbe?
Forse la domanda più difficile di tutte. La montagna soffre, a tutte le quote, l’immagine che noi proiettiamo su di essa, è vittima delle nostre ambizioni, dei nostri progetti, e se vogliamo anche del nostro egoismo. La montagna per me è un paziente domiciliare, di quelli che non ti chiamano così spesso per andare a trovarlo, e che però quando lo incontri senti che stai facendo più bene a te che a lui. E’ anche un paziente fragile, nella cui casa entriamo in punta di piedi e dopo esserci tolti le scarpe. Gli diamo del Lei, per rispetto, ma lui vorrebbe che gli dessimo del Tu. Non chiede di essere curato, e se vogliamo curarlo è perché ci teniamo davvero.
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