Gianni Zoppas tra i 100 migliori top manager
"Mai fare piani. Meglio pianificare"
| Emanuela Da Ros |
La prestigiosa rivista Forbes l’ha inserito tra i 100 migliori top manager italiani per il 2024, ma con lo stile e la compostezza che lo caratterizzano lui si smarca dall’ovation di congratulazioni. “A Vittorio Veneto - commenta - mi conoscono soprattutto come “il marito di Antonella (Caldart, ndr)”. Incontro con Gianni Zoppas, che ha lavorato con (non “per”) imprenditori e personaggi del calibrone di Luciano Benetton, Gianfranco Zoppas, Giancarlo Zanatta, Diego Della Valle, Oliviero Toscani, Flavio Briatore… senza mai perdere di vista le sue radici (mantiene l’accento de Vittorio pure quando parla in inglese…). E senza mai (o quasi mai) indossare la cravatta. In quest’intervista racconta le sue scelte, ricorda gli insegnamenti dei prof del Flaminio (e promuove il liceo classico) e, come se fossero suggerimenti, regala tanti consigli preziosi. Uno tra tutti: “mai fare piani, meglio pianificare”…E risponde proprio a tutto. Anzi, no.
Giovanni o Gianni?
Zoppas Il nome di battesimo è Giovanni, ma tutti mi chiamano Gianni.
La rivista Forbes ti ha inserito tra i 100 migliori top manager d’Italia per il 2024. Già l’etichetta “top manager”, il ruolo così definito, ti mette al vertice, con connotazioni “di punta”, che sembrano alludere a un’ascesa, una scalata ma, appunto, soprattutto una cima che in qualche modo influenza - da un punto di vista privilegiato? - la prospettiva dello sguardo, dell’operare. Essere poi uno dei 100 top manager acuisce di più la sensazione…che dovresti provare o magari quella che altri provano quando si relazionano con te. Che cosa vuol dire per te questo titolo? E questo riconoscimento?
Vedere riconosciuta la propria professionalità fa chiaramente piacere, ma se si usa il paragone dell’essere “sulla cima”, bisogna sempre considerare che su quella cima ci si deve essere arrivati. E arrivarci, per chi non viene calato dall’alto, è un esercizio continuo di focalizzazione e tenacia, fatto di momenti esaltanti e di passaggi deprimenti: insomma, la vita…La cosa importante è agire sapendo, come diceva Churchill, che “il successo non è mai definitivo, il fallimento non è mai fatale: ciò che conta è il coraggio di andare avanti”. In tutto questo, se si ha ben presente la fragilità di quello che siamo, non c’è spazio per l’arroganza: essere semplici è la normalità, nella coscienza che da soli non si va molto lontano.
Hai frequentato il liceo classico Flaminio a Vittorio e poi la Bocconi a Milano. Dalla piccola città alla metropoli (patinata). E‘ stato difficile? La formazione a Milano ti ha cambiato? Eppure, ascoltando le tue interviste, a parte la pacatezza, la semplicità, l’umiltà nel proporti - che apparentemente stride con l’immagine “canonica” del top manager - si avverte che hai mantenuto la dizione veneta, anzi vittoriese, pure quando ti esprimi in inglese. Che sei rimasto ancorato alle tue radici. Sono così forti? l’appartenenza alla tua terra d’origine la senti tenacemente? E qual è il più bel ricordo che hai del Flaminio? Aver potuto frequentare un liceo classico lo considero il più grande privilegio avuto nella mia formazione culturale.
Aver frequentato il Flaminio, con i suoi “mitici” professori - ne cito uno per tutti: don Mario Possamai - è stato qualcosa in più: è stato come avere a disposizione una biblioteca “parlante” di altissimo livello. E i più bei ricordi hanno proprio a che fare con le lezioni di alcuni di questi insegnanti: come scordare le origini della tragedia greca spiegate dal prof Sorge o la poetica del Pascoli nelle parole del prof Toffoli o la descrizione del tempio greco nella visione quasi onirica del prof Possamai? Momenti irripetibili… Passare da Vittorio Veneto a Milano, alla fine degli anni ’70, ha avuto le sue complicazioni che però, tutto sommato, sono state una palestra. Erano anni di grande fermento politico e sociale e chi, come me, ha avuto la possibilità di coniugare tutti questi incredibili impulsi con una formazione universitaria di primo livello ne ha tratto spunti importanti, una vera lezione di vita. Lezione di vita che recita: non tradire le tue origini, ascolta più che puoi e sii umile (umile, non remissivo). Non è scontato, non è facile, non sempre ci si riesce: è un esercizio quotidiano.
Dopo aver lavorato per le più importanti aziende multinazionali, ora sei Ceo di Tecnica Group spa, società che ha sede a Giavera del Montello, di proprietà della famiglia Zanatta. In che cosa consiste il tuo lavoro?
Il gruppo di cui sono AD fa più di 500 milioni di fatturato e conta su circa 4000 dipendenti, annovera tra i suoi marchi Moon Boot, Nordica, Tecnica, Blizzard, Rollerblade e Lowa. L’obiettivo del mio lavoro è definire e gestire la strategia del gruppo: il posizionamento dei marchi sul mercato, l’offerta di prodotto, l’organizzazione dell’azienda. Come sono solito dire il mio è l’ufficio che si occupa di risolvere i problemi, più o meno grandi, per riuscire a rendere le nostre attività delle attività di successo. Fare questo implica “decidere” e decidere è la cosa più difficile che ci sia, ma anche la più gratificante.
Sei ritenuto uno dei migliori top manager per la lunga carriera, ma forse soprattutto per i successi più recenti: dopo la pandemia le aziende che seguivi hanno avuto una crescita esponenziale in termini di fatturato e addetti. Controcorrente rispetto ad attività che invece, a causa del Covid, sono entrate in crisi. Te l’aspettavi? O è stata una sorpresa anche per te? Oltre al talento manageriale, quali elementi contribuiscono al successo professionale? l’intuizione? la fortuna?
Raggiungere risultati di successo non è qualcosa che ci si può aspettare o meno: è piuttosto qualcosa che si deve pianificare in modo adeguato. Si valutano il contesto (i mercati) e l’organizzazione che si ha a disposizione (le donne e gli uomini che compongono un team fanno la differenza) e si definiscono gli obiettivi (e questo è l’esercizio più complesso), sapendo comunque che i piani sono fatti per essere disattesi e che solo chi riesce a rimodularli nei modi e nei tempi giusti può avere successo. I piani non servono, serve pianificare…Una parte la gioca anche la fortuna ma, come diceva un mio vecchio capo, “la fortuna è una questione di carattere”.
Hai 66 anni: alcuni dei tuoi compagni di scuola o amici pensano alla pensione. Tu? Fino a quando pensi di lavorare? E quante ore lavori in genere? E, ancora, come ti distrai?
In realtà io sono già tecnicamente un pensionato, ma finchè mi diverto ho il privilegio di poter continuare a fare un lavoro bellissimo che mi permette di stare a contatto con le persone e con i fatti del mondo. Il mio lavoro, poi, è fatto più di qualità che di quantità: per fortuna il mondo del “workaholism” è finito da un pezzo… Il “negozio”, infine, richiede anche “l’ozio” ed il mio consiste nel pensare e leggere oppure leggere e pensare: mi piacciono molto la saggistica, di vario genere: da quella storica a quella politica/filosofica, ma anche il suo posto ce l’ha anche un po’ di poesia.
Passo indietro. Gianni da piccolo che voleva fare? che passioni aveva? Perché hai fatto il classico? Spinto dai genitori o dagli insegnanti? E poi perché Economia politica?
Da piccolo non avevo dei sogni particolari per il mio futuro: ero una forza della natura e ero concentrato sul combinarne di tutti i colori, avendo avuto la più classica delle infanzie tra l’oratorio (il Convento dei Frati di san Francesco) e le infinite giornate trascorse nella “piazzetta” sotto casa. Quindi il Liceo Classico: per chi voleva seguire una formazione generale e amava poco le materie scientifiche, era la scelta obbligata. Questa è una cosa che oggi mi fa sorridere perché all’università, tra Matematica generale e finanziaria, Statistica e Ricerca Econometrica ho fatto più di 10 esami a carattere quantitativo e anche con ottimi risultati. E’ la forza di un liceo classico: impari che con il giusto metodo niente è impossibile, si può fare tutto. Quando è stato il momento di decidere quale Università frequentare, sapevo per certo che Medicina non era fatta per me: avevo visto i tomi di Anatomia che aveva dovuto sorbirsi mio fratello Marco. Avevo anche voglia di andare oltre Venezia e Padova, i classici luoghi dello studio universitario dei vittoriesi. Milano quindi era perfetta e a Milano c’era questo corso di Economia Politica il cui solo nome mi affascinava. E così a settembre del 1977 mi sono trasferito a Milano.
Hai sposato Antonella Caldart: vi siete innamorati tra i banchi del Flaminio? Con lei hai avuto due figli, Tommaso e Giacomo. Quanto ha contato avere Antonella come compagna di vita? Quanto è importante la famiglia?
Ho conosciuto Antonella, mia moglie (anche se a Vittorio Veneto sono io suo marito…) nel 1980 quando ero già all’università. Allora è nato il nostro sodalizio: lo chiamo così perché l’amore, se non ha un progetto, penso duri poco…e dopo tanti anni siamo ancora assieme e crediamo entrambi che la famiglia abbia un valore fondamentale. La vita non è rose e fiori e avere un luogo dove si può essere sinceri sino in fondo, senza remore è il presupposto per riuscire a superare le difficoltà e le asperità, cercando di vivere in modo sereno ed equilibrato. Abbiamo due figli sì: Tommaso, laureato in Giurisprudenza , vive in Sardegna e fa l’imprenditore nel mondo dello sport velico, e Giacomo, laureato in Medicina, vive a Ferrara dove si avvia a diventare uno psichiatra.
Grazie al tuo ruolo hai avuto in passato e tuttora hai a che fare con personaggioni di spicco (Del Vecchio, Benetton, Della Valle…), e con situazioni, ambienti professionali internazionali. Come ci considerano all’estero? Come vedi l’Italia di oggi?
Nel corso della mia carriera ho lavorato con imprenditori e personaggi famosi (Luciano Benetton ed i suoi fratelli , Gianfranco Zoppas , Giancarlo Zanatta, Diego Della Valle, Renzo Rosso, Gildo Zegna ma anche Oliviero Toscani, Flavio Briatore…e tanti altri, anche stranieri, alcuni magari meno conosciuti ma altrettanto importanti, come monsieur Arnault, per dirne uno) e da tutti ho imparato qualcosa di particolare ma in tutti ho trovato qualcosa di simile: non c’è risultato che si possa raggiungere senza coerenza, applicazione e passione. Il contesto nel quale ho lavorato è sempre stato quello internazionale e devo dire che mentre noi italiani siamo molto considerati nella nostra singolarità (in particolare per un’innata capacità di risolvere pressoché qualunque problema) il nostro Sistema Paese all’estero è visto come molto debole. Qualcosa è stato fatto negli ultimi anni per ovviare a questa debolezza ma siamo ancora incapaci di presentarci all’estero come “Paese”, siamo ancora vittime del nostro campanilismo regionale o locale. E quello che vedo ancora oggi non mi lascia sperare in un cambio di rotta.
Nel tuo lavoro, anche in prospettiva futura, evidenzi l'importanza della sostenibilità e forse della solidarietà. Che pensi di una società dove invece accoglienza significa spesso reclusione, respingimento? dove è considerato un reato soccorrere le scialuppe in mare? dove è reato universale la maternità surrogata, dove la violenza entra quotidianamente nella cronaca e dove continua a esserci un divario sempre più forte tra ricchissimi e poveri…Insomma hai fiducia nel futuro, nelle persone?
Senza fiducia non esiste futuro: questo semplice assunto viene messo a dura prova ogni giorno. Personalmente ho una grande fiducia e una grande considerazione dei giovani, ai quali ho sempre cercato di dare spazio per esprimersi. Allo stesso modo non credo nelle “quote rosa”, che mi sanno molto da autolavaggio delle coscienze; credo invece nel dare pari opportunità a chi ha conoscenze e competenze. Nelle aziende nelle quali ho avuto ruoli direttivi, giovani e donne hanno sempre trovato spazio per ruoli coerenti con le loro capacità. Ci sono anche temi più genericamente sociali con i quali ci confrontiamo giornalmente (l’immigrazione, il welfare , il supporto alla maternità …): può sembrare incredibile ma oggi la richiesta di risposte e la loro mancanza cronica è tale che è alle aziende che viene chiesto di supplire svolgendo un ruolo di “privato sociale” sempre più importante. Noi, come aziende private, stiamo già facendo e possiamo fare ancora molto ma abbiamo bisogno di muoverci all’interno di una visione “di sistema” che in molti casi è assente e che a volte non considera neppure il sano realismo, al di là dell’eventuale matrice valoriale. Un esempio: il tasso di natalità anche in Italia è in picchiata: per alcune mansioni non si trovano operatori, la sostenibilità del nostro sistema pensionistico è su una via a dir poco critica…Piaccia o meno, la decrescita felice è utopia, perché a chi deve mangiare e scaldarsi e magari godere di un po’ di felicità, non si possono offrire come alternativa la bellezza dell’alba e del tramonto. E quindi? Quindi bisogna uscire, ad esempio, dagli stereotipi dell’immigrato irregolare portatore di problemi, da quello dei giovani scansafatiche, del fastidio per le donne che vogliono avere dei figli, per entrare in una visione realistica fatta di obiettivi e regole da definire e far rispettare. Mi permetto - a ragion veduta, credimi - una critica al nostro sistema Paese: troppi obiettivi e poche priorità, troppe regole e pochi controlli, tanti proclami ma poca certezza della pena…
Ultimissime domande - e capirai perché sono in coda (e perché sotto la coda nascondo la testa) -: nelle foto ufficiali non hai mai la cravatta. Non è un po’ il segno distintivo del manager? E - infine - quanto guadagni?
L’abito non fa il monaco: la cravatta, grazie a Dio, oggi non è più uno status symbol ma solo un accessorio che si indossa, se è il caso, per piacere personale o per educazione. In generale, per strano che possa sembrare, il mondo è sempre meno sensibile all’apparenza e sempre di più alla sostanza: e questo, sia pure con tutte le sue contraddizioni, è qualcosa che ci stanno insegnando i ragazzi della generazione Z. Meno chiacchiere, meno simboli e più coerenza e sostanza. Ogni tanto però anche il monaco indossa l’abito: quando incontravo monsieur Arnault, la cravatta la indossavo anch’io! e ne ho anche di belle…
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