LAVORO - POLITICHE ATTIVE E PASSIVE
Ci stiamo preparando al post Covid?
| Claudio Bottos |
LAVORO - Un lavoratore mi ha chiesto di fargli capire cosa significa politiche attive e passive nel campo del lavoro perché sente spesso questi termini, ma non ha le idee chiare su cosa sono. Proverò, in modo semplice a chiarire il loro significato e, allo stesso tempo, dare la mia idea sulle politiche attive. Parto dalle politiche passive. Si chiamano passive perché, nel momento in cui una persona rimasta senza lavoro, a causa di licenziamento o chiusura temporanea o definitiva dell’impresa, non percepisce più lo stipendio e interviene lo stato con un contributo economico per il sostentamento del lavoratore. Questo avviene con diversi strumenti quali la cassa integrazione, la Naspi, ecc. Il dipendente non fa nulla, rimane passivo e aspetta il contributo assistenziale dallo stato e/o le anticipazioni che può fare il datore di lavoro sulla base di eventuali accordi.
Veniamo alle politiche attive. Il nostro paese, come ha affermato la Presidente del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro Marina Calderone, nel comunicato stampa dell’8 febbraio 2021, è un paese delle politiche passive-da sempre presenti nel nostro ordinamento ̶ ma è estremamente carente in quelle attive. Ma cosa sono le politiche attive? Cerco di spiegarlo con un esempio semplice, e di questo mi perdoneranno i colleghi consulenti e tutti coloro che conoscono queste tematiche. Immaginiamo tre scatole comunicanti dove, nella prima ci sono dentro le aziende che hanno necessità di lavoratori per produrre beni ed erogare servizi, nella seconda ci sono tutti i lavoratori attivi e nella terza finiscono i lavoratori che vengono espulsi e che non trovano lavoro.
In un mondo ideale, dove le aziende non chiudono, la forza lavoro si rinnova e tutti in età di lavoro trovano impiego, la terza scatola sarebbe vuota, quindi senza disoccupati, perché il flusso ci sarebbe solamente tra le scatole uno (imprese) e due (lavoratori). Teniamo presente che quasi sempre, chi finisce nella terza scatola viene protetto dalle politiche passive con i sussidi, che in larga parte sono pagati dalla collettività, ossia da tutti noi. Purtroppo, non siamo in un mondo ideale e quindi, per svariati motivi, sia endogeni alle imprese per fatti straordinari o cattiva gestione, sia esogeni perché succede qualcosa di particolare a livello locale, nazionale o globale, come le crisi finanziarie o le pandemie, nella terza scatola finiscono, purtroppo, molti lavoratori.
Ma come fanno quelli della terza scatola a rientrare nel flusso imprese-lavoratori? Adesso esiste una rete, coordinata dall’ANPAL (Associazione Nazionale Politiche Attive del Lavoro), formata principalmente da centri per l’impiego (strutture pubbliche regionali), agenzie per il lavoro e soggetti accreditati (privati) che cercano di far incrociare la domanda di lavoro (lavoratori) e l’offerta (imprese). Ma a quanto pare questo sistema non funziona bene e la parte comunicante, tra la scatola dei disoccupati e quella delle imprese, pare strozzata. I motivi sono molteplici ma quattro, a mio avviso, meritano attenzione.
Il primo riguarda le richieste di personale delle aziende che spesso, per competenze e attitudini, non sono formulate in modo corretto, il secondo riguarda l’esatta conoscenza e consapevolezza delle proprie competenze e attitudini da parte dei lavoratori, il terzo riguarda l’apparato formativo dei lavoratori perché molte volte non è mirato e calibrato sull’impresa, mentre il quarto riguarda l’accentramento, la struttura e la condivisione di queste informazioni. Le aziende, soprattutto le piccole, fanno molta fatica a delineare esattamente le competenze e attitudini di cui necessitano, escluso ovviamente i lavori a basso contenuto di competenze tipo le pulizie, il facchinaggio, ecc., perché non hanno ben chiaro e delineato l’assetto organizzativo, i processi aziendali e gli output attesi.
Questa mancanza delle imprese si scontra molte volte con la mancanza di consapevolezza e conoscenza, da parte dei lavoratori, di quelle che sono le reali competenze e attitudini. Non basta, ad esempio, aver fatto un corso, spesso solo teorico, sulla contabilità e pensare di poter gestire un ufficio amministrazione. Queste mancanze fanno diventare difficile e spesso impossibile, l’incrocio tra domanda e offerta di lavoro.
Ci sono alcune modalità per fare questo, ad esempio creando delle classiche matrici delle competenze dove si possono mettere le esigenze di una mansione, i livelli di competenza e le eventuali attitudini richieste per le varie attività. La stessa cosa dovrebbero fare i lavoratori entrando nel dettaglio di queste matrici per capire se potrebbero essere in grado di ricoprire ruoli e/o mansioni richieste.
Detto ciò, per migliorare l’incrocio tra domanda e offerta di lavoro, servono scelte politiche, si devono fare riforme e semplificare la burocrazia. Si deve passare per una gestione da parte delle aziende e/o di consulenti delle stesse, ovviamente con dati accentrati e condivisi, perché conosco le reali necessità di risorse umane, per fare il match con le competenze e le attitudini dei lavoratori che cercano impiego. Contemporaneamente andrebbero anche rivisti i piani formativi generici che spesso danno poco ai lavoratori in termini di crescita professionale e di conseguenza alle imprese.
I piani formativi dovrebbero essere mirati e gestiti direttamente dalle imprese per poter colmare il gap di competenze che emerge dalla messa in comune delle competenze e attitudini richieste e di quelle offerte. Il ruolo del pubblico dovrebbe essere quello fluidificare questo flusso e di controllare eventuali distorsioni, anomalie o attività illegali. Un miraggio? Lo vedremo nel tempo, sperando, nel frattempo di non dover vedere dei nuovi navigator cercare lavoro per gli attuali navigator.
di Claudio Bottos (Consulente del lavoro e di direzione strategica aziendale)