"Minigonna? Sarà mica colpa nostra se ai proff. cade l'occhio"
Oltre alle norme anticovid e al problema dei supplenti mancanti, ora nella scuola si discute anche di abbigliamento
Treviso - “Non è colpa nostra se gli cade l’occhio” – hanno scritto a pennarello su un cartellone che poi hanno appeso alle pareti del loro liceo, il “Socrate” di Roma. Questa la prima reazione delle studentesse all’invito della vicepreside a presentarsi a scuola in abiti il meno scosciati e scollati possibile. Tempo almeno che arrivino i nuovi banchi perché nel frattempo devono sedersi per terra. L’indomani dalle parole sono passate ai fatti, presentandosi in aula in minigonna: “Sarà mica colpa nostra se ai proff. cade l’occhio”. Un nano secondo e su giornali e social si è infiammato il confronto tra le opposte tifoserie.
A difesa della “libertà di abbigliamento” e della resistenza chi sente cattivo odore di maschilismo, e piuttosto malcelato. Sulla trincea avversa i paladini del: “è una questione di rispetto di tutti verso tutti”. Arduo risulta contemperare le due istanze. All’apparenza almeno. Perché in pratica non dovrebbe riuscire così difficoltoso. Questa almeno l’opinione che abbiamo raccolto di Paola Esposito, psico- pedagogista. “I veti servono solo a impedire la comprensione reciproca. Quando un avvenimento suscita un “problema” bisogna ascoltare le ragioni di entrambe le parti e metterle a confronto. Importante è focalizzarsi sul tema in oggetto, evitando di partire per la tangente e introducendo considerazioni generali o addirittura di altro genere, ammantandole di questioni di principio”. Spesso accade, in altre parole, di perdere di vista l’oggetto della discussione e di andare rapidamente fuori tema.
Nel caso specifico la dott.ssa Esposito, nelle ipotetiche vesti di vicepreside, avrebbe probabilmente condiviso con le ragazze del suo liceo la preoccupazione che – considerare le disposizioni previste dal protocollo anti-covid in ordine al distanziamento nonché la mancanza, al momento, dei nuovi banchi – si possano venire a creare pur involontariamente situazioni di imbarazzo. “E quindi non un divieto ma un invito alla collaborazione per la serenità di tutti in un momento inedito come quello che stiamo attraversando”. Una questione di metodo, tanto per cominciare e impostare la discussione su basi che evitino di farla deflagrare. Sul merito la psicopedagogista respinge come assolutamente anacronistica una regolamentazione sull’abbigliamento consono da indossare a scuola ma aggiunge che “la cura della persona, l’igiene, gli indumenti denotano il modo con il quale ci relazioniamo agli altri quotidianamente in un contesto con un alto tasso di socialità. Concetti e pratiche però che abbisognano sempre e necessariamente di persuasione, non di imposizione”.