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01 settembre 2024

Vittorio Veneto

Veneta e africana

Luisa Casagrande ha una formazione universitaria variegata ed è una persona poliedrica

| Michele Zanchetta |

| Michele Zanchetta |

luisa casagrande

VITTORIO VENETO - Ha vissuto sino a otto anni in Africa. In Nigeria, il paese di mamma Scolastica Opara (il papà si chiamava Teodorico Casagrande ed era originario di Borgo Fighera a San Floriano di Vittorio Veneto), ha fatto le scuole inglesi e americane.

 

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In seguito, i genitori hanno ritenuto che un’istruzione Italiana fosse un valore aggiunto alla sua formazione ed è arrivata a Vittorio Veneto. Qui ha studiato al collegio Luzzati dalle suore Giuseppine e poi a Oderzo al Collegio Brandolini. “Facevo l’anno scolastico qui – dice – e d’estate partivo e tornavo in Africa”. In seguito ha studiato all’Università di Padova, di Venezia e di Lagos. Ora per lavoro spesso va in Nigeria, dove segue l’azienda di famiglia. E’ sposata e ha tre figli. Lei è Luisa Casagrande, cinquant’anni, antropologa esperta di evoluzione culturale. I suoi studi recentemente l’hanno portata a Venezia, la città del “sangue misto”, che incuriosiva persino Casanova. Luisa, partiamo dall’inizio.

 

Perché tuo padre, vittoriese doc, aveva scelto di vivere in Nigeria?

Nel 1963 doveva rimanere In Nigeria tre mesi, per lavori al porto di Lagos, poi ha incontrato mamma… Non era solo amore per lei o il famoso mal d’Africa, era amore per la libertà, per poter fare quello che si vuole, senza costrizioni. In Occidente siamo sempre strutturati nei rapporti, ci facciamo influenzare da quello che immaginiamo possano pensare gli altri, lì no. Io sono nata durante la guerra del Biafra, che in famiglia abbiamo vissuto in prima persona: papà e mamma partivano da Lagos e andavano a sud a caricare, per salvarle, le persone nei villaggi prima che venissero rastrellate dai soldati. Gli uomini venivano rapiti per farli combattere in un conflitto che loro non comprendevano affatto, gli stessi bambini dai 5/6 anni venivano usati per sparare. Un’atrocità umana che non si può dimenticare. Messi in salvo, cercava di dare un lavoro per sostenere loro e la famiglia. Questa esperienza umana me la sono sempre portata dentro e anche quando è mancato, in Nigeria qualche anno fa, durante il funerale è stato ricordato dai salvati come una persona giusta.

 

Hai radici europee ed africane: come ti definiresti?

Mi piace definirmi l’apologia dell’intersezionalità, una definizione che ho imparato ad usare da qualche tempo: sono donna e sono mixed, ovvero sono bi-culturale e bi-razziale, ho un bagaglio culturale poliedrico che deriva dalle mie radici e dalle mie esperienze di vita. Sono veneta, italiana ed europea, anche e Igbo (l’etnia di appartenenza di mia madre, noti anche come biafrani), nigeriana ed africana. Ho radici cristiane, ma anche animiste, perché nata e cresciuta nella cultura degli Yoruba, quella che molti conoscono per certa ritualità, come per esempio il voodoo.

 

Come è stato passare dall’Africa alla Vittorio Veneto degli anni Settanta?

Un bel salto, ma di cui conservo ricordi indelebili, sin dal primo giorno. Quando arrivai a scuola ero una novità assoluta, non esisteva la società contemporanea. I bambini mi circondarono per guardarmi, e qualcuno mi passava le dita sul braccio, per capire il perché della colorazione della pelle, un comportamento che copiai immediatamente, quasi a identificarlo come un modo di interagire del luogo. Non parlavo italiano, ma solo inglese, Yoruba e Igbo. Il primo anno ho fatto tutte le classi insieme, dalla 1° alla 4°, per mettermi al passo con gli altri, ma è stato grazie al mio carattere, perché nessuno mi aveva mai parlato in italiano, nemmeno mio padre. La mia fortuna è stata Suor Eustella, di cui ho un ricordo e una riconoscenza immensa, che mi ha tenuto con sé e mi ha fatto alfabetizzazione ogni pomeriggio.

 

Che esperienza è stata l’università?

Ho studiato Scienze diplomatiche Internazionali a Padova, poi mi sono iscritta a Conservazione dei Beni Culturali a Venezia. Contemporaneamente ero iscritta anche in Nigeria all’università, dove ho preso il mio bachelor’s degree (la laurea triennale) in archeologia africana. Ho seguito Antropologia culturale con il professor Colucciello, ma poi sono arrivata ad Antropologia Fisica con la professoressa Bertoldi. Con lei ho studiato tafonomia e l’archeologia delle sepoltura, cimentandomi anche sul campo. Racconta qualcosa della tua vita professionale Si divide in due periodi: la prima è quella formativa, impegnata come segretaria d’amministrazione e in piccole esperienze imprenditoriali, poi arriva l’intersecazione di diversi mie interessi, tra i quali l’antropologia culturale e evolutiva. Il tutto avviene quando conosco la figura di Margaret Mead, un’antropologa americana rivoluzionaria, e mi innamoro dei suoi studi. Una donna simbolo del Novecento: dall’emancipazione femminile agli studi di genere, dalle tematiche razziali all’identità delle minoranze, allo studio della nostra società in rapporto alla sessualità.

 

Come vedi, da antropologa, la nostra società in evoluzione?

Dopo tante battaglie contro il razzismo, purtroppo presente a varie latitudini, qualcosa sta cambiando. La scelta di cercare un’identità, da parte dei neri, è in continua espansione e lo si percepisce anche da aspetti sociali più ampi. Certo esistono dei tentativi di appropriazione errati, che non servono a nulla e che per me non hanno senso, come per esempio il voler imporre un personaggio nero in un contesto non consono: uno su tutti, la trasformazione di Biancaneve nel nuovo film Disney in uscita nel 2024, dove sarà interpretata da Rachel Zegler, attrice americana con radici colombiane. E in Italia? In Italia c’è una storia diversa, completamente differente dal resto d’Europa e dagli USA. Io penso che generalmente non si possa parlare di razzismo, ma di discriminazione razziale, che non è la stessa cosa. Il razzismo richiama a un’ideologia e a una storia particolare, che non sono italiane. L’Italia ha una storia di colonialismo, certamente, e forse la nostra generazione vive ancora dei retaggi di quelle che ci hanno preceduto, ma non sarà così per il futuro. Quello che io chiamo intersezionalità è l’insieme dei bagagli personali di un individuo: hanno origini diverse, tendenze sessuali e sociali differenti, ma si accettano perché è normalità. Sei anche un’imprenditrice…esplosiva! In Nigeria sono amministratrice dell’azienda di famiglia, fondata dai miei genitori. Mio padre lavorò nel campo minerario e ora seguo i suoi passi nella gestione dell’estrazione della pietra, un lavoro prettamente maschile in cantiere, tra esplosivi e micce, ma dove sono cresciuta e mi trovo a mio agio. Viaggio continuamente tra Italia e Africa, ormai non conto più i voli lungo quella tratta. In Italia invece dirigi un’attività pioneristica… Mi sono guardata intorno e ho cercato di capire il mondo che mi circondava: la nostra società è sempre più caratterizzata da seconde generazioni di emigranti e mixed, ovvero sempre più biculturale e birazziale, le nuove generazioni sono cresciute qui e non sono coscienti della ricchezza della loro condizioni, spesso la vivono con sofferenza. La loro diversità invece ha delle potenzialità incredibili, sia per loro che per la società che li circonda e in cui vivono. Ho fatto dei corsi e preso certificazioni su diversity inclusion e racial equity, ovvero inclusione della diversità e equità razziale, specializzandomi in mentoring, ovvero svolgo il ruolo di guida e formatore.

 

Dove deve iniziare questo percorso?

Ho iniziato a lavorare con i ragazzi in un ambito ristretto, dove ho posto le basi per come proseguire con il progetto. Devono imparare a potenziare e valorizzare la loro multidentità, i ragazzi invece tendono ad avere un’autostima pari a zero. Sono quindi entrata nelle scuole, dove questo problema è sentito tantissimo, direi quotidiano visto la composizione delle classi. Ho lavorato molto con gli insegnanti che avevano a che fare con classi Mixed e multiculturali, portando consulenza e formazione. Le seconde generazioni ormai hanno superato la formazione scolastica e lavorano nella nostra società. Sono poi passata al mondo del lavoro, ormai molte aziende e organizzazioni chiedono questo tipo di consulenze per comprendere meglio il capitale umano sul quale investire in lavoro, visto che molti reparti sono totalmente multiculturali e bisogna capire come coordinare forza lavoro che arriva da realtà diversissime. In altri ambiti, esecutivi e direzionali, non ci siamo ancora arrivati, ma non manca molto e bisogna essere pronti. In questo mi ha aiutato molto la formazione da antropologo culturale, infatti grazie ai miei studi sono riuscita a comprendere come gestire l’attività di approccio e formazione insegnanti e manager in questo ambito. Nella tua vita hai fatto un sacco di percorsi e sperimentato nuove vie, ma con un centro di gravità. Certamente, tutto ruota attorno al mio sole, che è l’antropologia culturale e evolutiva. Non tutti sono portati a farlo, a me viene spontaneo ed automatico, non faccio nessuna fatica a collegare punti apparentemente lontani. Tutto nasce da una passione, che ti porta ad approfondire e non essere mai paga del risultato, portare ogni volta più in là il limite, inglobare nuovi ambiti non esplorati. Secondo me aver questa capacità è un tesoro che sto cercando di far capire ai responsabili delle aziende, perché spesso inquadrati tra preconcetti e pregiudizi, non comprendono che saltare da una cosa all’altra è essere poliedrici, quindi una risorsa, non un limite. Immagina ad una ditta che deve ristrutturarsi e non ce la fa, perché bloccata da consuetudini e organizzazioni obsolete, in quel caso queste personalità possono intervenire e fargli fare il salto.

 

Hai degli esempi?

Certo, pensa i PAS, le persone altamente sensibili, ci sono nella scuola come nel lavoro, ma vengono spesso ghettizzate e isolate perché non comprese. Hanno ricchezza, potenzialità e capacità interna pazzesca, ma non vengono considerate perché parlano o si esprimono con un linguaggio diverso. L’antropologia fatta sul campo, in Europa, Sudamerica e Africa, mi ha permesso di comprendere queste capacità spesso ignorate.

 

Puoi raccontare il tuo progetto sul meticciato?

Anni fa notai a Venezia alle Gallerie dell’Accademia, nel quadro Miracolo della Croce a Rialto di Vittore Carpaccio, un gondoliere moro. Rimasi colpita e pensai di svolgere una ricerca su queste presenze nella storia di Venezia. Iniziai parlando con una docente dell’università, che mi consigliò di pensare ad un lavoro sul meticciato in Italia, ma io volevo restringere il campo d’azione. Fui aiutata da Franco Filippi, un libraio veneziano che è un pozzo di conoscenze, ma il lavoro è difficile, non ci sono fonti perché nessuno parla di loro nella storia, spesso erano servitori o schiavi. Ma ci sono anche meticciati tra veneziani e asiatici, slavi, germanici, greci e turchi, etnie diverse che convivono e si incrociano, e noi stessi siamo figli di questa storia. C’è anche una divertente storia di Casanova: tra le sue numerosissime conquiste appare anche una ragazza mora, a cui pone molte domande, alcune tra l’imbarazzante e il divertente. Nonostante la difficoltà nel reperire il materiale, sta uscendo un bel lavoro. Comunque, il mio ambito di studio è vario, nel mio sito https://metissagesanguemisto.com/ si possono trovare tutte le tematiche che affronto.

 



Michele Zanchetta

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