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07 gennaio 2025

Treviso

È DIFFICILE PARLAR D’AFRICA

Taneka Beri, Benin, riceve il Premio Internazionale Carlo Scarpa per il Giardino. Mostra in Fondazione Benetton fino al 26 giugno.

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È DIFFICILE PARLAR D’AFRICA

TREVISO - Il villaggio di Taneka Beri si trova in Benin, nell’Africa sub sahariana, e non è un giardino. Non è nemmeno un’oasi di verde a ridosso dell’altura dell’Atacora. Eppure riceve il premio Carlo Scarpa per il giardino. Perché? La Fondazione Benetton non ha preso un abbaglio, si tratta di guardare da vicino le motivazioni della giuria.

Innazitutto, il premio non è un riconoscimento estetico. Non è stata valutata la bellezza di un luogo. E nemmeno si tratta di trovare nella realtà il sogno di un eden immaginato. Il termine giardino, ha, per la giuria, una valenza tecnico-scientifica, e sta ad indicare, in questo caso, l’insieme delle azioni che l’uomo fa sul suo territorio. La giuria, dunque, ha valutato il modo in cui la comunità africana si è relazionata finora e continua a relazionarsi nei confronti del proprio villaggio, Taneka Beri.

Come è possibile riuscire a dare un giudizio di questo tipo? Non è certamente facile visto che il popolo Taneka, “quelli delle pietre”, è culturalmente molto distante da noi europei. Il gruppo di lavoro della Fondazione, infatti, si è appoggiato all’antropologo Marco Aime che ha segnalato il villaggio alla giuria del premio e che da venti anni lavora in Benin. “Quest’anno c’era l’idea di trovare un posto in Africa,” dice Simonetta Zanon “quindi, una volta arrivata la segnalazione del prof. Aime, abbiamo subito deciso di andare sul posto.” Taneka Beri è un villaggio di 300 persone. Insieme ad altri tre villaggi, costituisce una frazione della città di Copargo, che conta in totale 50.000 abitanti. A noi europei può ricordare il tipico villaggio rurale africano dei documentari. È composto da un migliaio di piccoli manufatti, stanze, granai, costruzioni di uso diverso, fatti con pietre, terra cruda impastata e paglia, per lo più a pianta circolare e a tetto conico, con un diametro oscillante da due a tre metri. Queste costruzioni sono aggregate in gruppi da dieci in modo da formare un piccolo spazio aperto che funge da cortile multifunzionale. All’intorno, alcuni baobab fanno ombra alle pietre disposte in cerchio per le riunioni del villaggio. Veniamo, quindi, alle motivazioni della giuria?

Da quando è nato, quasi duecento anni fa, il villaggio di Taneka Beri rappresenta il luogo della memoria per una comunità di circa 19.000 persone, che, pur non vivendo nel villaggio e non essendovi mai nate, lo riconoscono come parte della propria storia. È come se una superficie di circa 800 metri quadrati -tale è infatti l’area occupata dal villaggio- fosse considerata il simbolo di una comunità che si estende su una superficie grande quanto la metà del Veneto.

Taneka Beri è nato nella seconda metà del XVIII secolo, quando gli europei erano impegnati nella tratta degli schiavi e le popolazioni africane scappavano verso le montagne del nord. Etnie e tribù diverse hanno imparato a condividere gli stessi spazi ai piedi dell’Atacora e così è nato il villaggio di Taneka Beri. Al popolo Taneka piace raccontare un aneddoto. Dopo le differenti etnie si rifugiavano nelle grotte della collina, ne uscivano parlando la stessa lingua.

Ma Taneka Beri non è solo un simbolo di riuscita convivenza. Oltre ad essere un luogo attraente per una numerosissima comunità che in esso riconosce la propria storia, è un esempio di riuscita convivenza tra memoria e modernità. Non è un simbolo lontano. Infatti, il villaggio continua ad essere abitato, senza che questo porti ad avere dei privilegi. Chiunque può entrare nella comunità. Non ci sono capi politici. Ci sono quattro re che hanno soprattutto il compito di coordinare la coltivazione della terra, che non ha proprietà.

Non è isolato dalla modernità. Infatti, non è una riserva, protetta dai cambiamenti. È una delle frazioni della città di Copargo di cui rispetta le decisioni amministrative. Le persone hanno i cellulari e indossano anche capi di abbigliamento occidentali. Non è un luogo “sacro” per eccellenza. Ogni famiglia ha mantenuto i propri riti e più sacerdoti convivono tra loro.

Non è un luogo immobilizzato nella propria storia. Non esiste l’idea del restauro e se una casa cade, se ne fa un’altra, anche usando il tetto di lamiera, invece delle solite fascine di paglia.

Eppure questo luogo è speciale per le 19.000 persone che lo riempiono in occasione delle cerimonie collettive. Tutti lo riconoscono come uno spazio imprescindibile della propria storia. Non per gli oggetti che ci sono, a cui si dà il beneficio del cambiamento. Non per le persone che vi abitano, a cui non si danno privilegi. Non perché rappresenta visivamente qualcosa che non c’è più e deve conservarsi immutato.

È un luogo rispettato che riesce, per questo, a rimanere uguale a sé stesso. Ed è rispettato perché rappresenta il luogo di una riuscita convivenza tra etnie differenti che hanno creato un sistema politico e sociale in cui essere cittadini significava rispondere ad un progetto di cittadinanza fondato sulla convivenza.

Alessio Imbò

 


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