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25 aprile 2024

Treviso

L'evoluzione della crisi di governo fra strategia e responsabilità

I possibili scenari e le scelte obbligate

| Davide Bellacicco |

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| Davide Bellacicco |

L'evoluzione della crisi di governo fra strategia e responsabilità

A seguito dell’esito referendario il Governo Renzi, sorto nell’ambito della stagione delle riforme inaugurata dal Governo Letta, concluderà domani la sua corsa. 1019 giorni che ne faranno il quarto governo più duraturo della storia dell’Italia repubblicana, l’ottavo da Cavour in poi. Sul referendum si è detto anche troppo e troppo si continuerà a scrivere per molto tempo. Volgendo lo sguardo al futuro, proviamo a spiegare come evolve una crisi di governo, tentando una riflessione su alcune proposte in campo.

 

Anzitutto, un dato che pare certo: la crisi, come sempre eccetto che per i due governi Prodi, sarà di tipo extraparlamentare. Il Presidente Renzi non sembrerebbe intenzionato, infatti, a presentarsi alle camere per un voto di fiducia a conclusione dell'iter di riforme, avendo anzi già annunciato pubblicamente e al Capo dello Stato l'intenzione di rimettere il mandato per ragioni di opportunità istituzionale, proprio a seguito dell'esito delle urne. Leggendo i giornali apprendiamo che più o meno tutti i partiti dal M5S a NCD terranno le rispettive riunioni dei direttivi per decidere il da farsi da domani pomeriggio in poi. Perché non oggi? Perché domani alle 15.00 si tiene la Direzione Nazionale del PD. Il nesso è presto spiegato. Il Presidente della Repubblica, secondo il dettato costituzionale, dovrebbe gestire la crisi di governo individuando un nuovo soggetto al quale conferire l’incarico di formare un nuovo esecutivo che andrà alla prova del voto di fiducia delle camere. Prassi vuole che si verifichi previamente la sussistenza di una maggioranza parlamentare mediante le consultazioni. Presumendo che al Quirinale siano dotati di calcolatrice o siano mediamente abili nei calcoli a mano, il candido Capo dello Stato saprà già che il Partito Democratico, da solo, detiene un numero tale di deputati e senatori da rendere assolutamente necessari i sì di quella forza politica perché un qualsiasi governo regga alla prova del voto. Senza PD, nella XVII legislatura (che sta per volgere al termine), non si governa. 

 

Può un governo reggersi con l’astensione del PD? No, perché i contrari sarebbero un numero enormemente maggiore rispetto agli sparuti centristi favorevoli rimasti, quindi scartiamo già ipotesi nostalgiche delle alchimie da prima repubblica perché non è questo il caso. 

 

Cosa farà, allora, il presidente Mattarella insieme a tutte le altre forze politiche? Attenderà che il PD si pronunci su come intenda affrontare la crisi di governo. Poi attenderà anche che venga approvata alla Camera la legge di conversione del Decreto Terremoto e al senato la Legge di Stabilità e, infine, riceverà Matteo Renzi per accogliere le dimissioni del fiorentino. Il pallino non ce l’ha, insomma, Mattarella ma la direzione dem. Fermiamoci sul capitolo direzione PD. A questo punto occorrerà capire se c’è l’intenzione da parte di Renzi di rassegnare o no le dimissioni da segretario. Questo non possiamo saperlo. La sera del voto sembrava che ci fosse da parte sua l’intenzione di abbandonare anche la segreteria. Poi, parrebbe, il condizionale è d’obbligo, che sia stato ricondotto a più miti consigli. Il punto è questo: se in settimana si procede con lo scioglimento delle camere o non si procede con lo scioglimento, al voto per le politiche è chiaro che non manchi più molto. Da parte del segretario, non propriamente uno sprovveduto quando non si fa consigliare da certi guru americani che alla terza debacle storica in un anno farebbero meglio a dedicarsi al bricolage, sarebbe una autentica follia priva di alcuna logica rassegnare le dimissioni da capo del partito, lasciando che le liste per le politiche le faccia un soggetto estraneo alla propria corrente che, assai probabilmente, ne uscirebbe decimata. Aggiungiamo pure che lasciare allora la segreteria nelle mani di un renziano che possa contare su una maggioranza renziana non risolverebbe nulla: tanto varrebbe restare alla situazione attuale.

Questo ragionamento, bisogna ammetterlo, delle pecche le ha: non considera l’ipotesi di un congresso PD prima delle politiche (ma i tempi sono un po’ troppo ristretti, e allora avrebbe senso allungare la vita della legislatura con un nuovo governo, magari a guida PD, ma poi come convinci il nuovo presidente a farsi da parte?) e non considera neanche i possibili riposizionamenti in direzione (ma Renzi lì gode di una maggioranza bulgara, sebbene molti di quei voti siano amministrati da un Dario Franceschini poco convinto dell’ipotesi voto anticipato e pure un autorevole popolare come il vicecapogruppo alla Camera, Gero Grassi ha dichiarato di preferire la continuità istituzionale alle strategie di partito).

Che Renzi lasci o no la segreteria si dovrà decidere come si posizionerà il PD in vista delle consultazioni. Il fatto che l’evidente ordine di scuderia sia stato quello di martellare mediaticamente sull’equazione 40% di sì = 40% di consensi a Renzi fa seriamente presumere che il Presidente coltivi delle velleità di rivalsa. La memoria degli italiani è piuttosto corta in fatto di politica e un minimo di strategia richiederebbe di capitalizzare quel risultato il prima possibile, evitando che il titolare si logori per troppo tempo alla guida di un partito che voti la fiducia ad un governo tecnico o istituzionale o che si lasci dimenticare mentre altri governano al posto suo. Tutto questo per evidenziare come, dalla prospettiva di Renzi, sarebbe bene sciogliere le camere quanto prima, negando la fiducia a qualsiasi governo di scopo, modificare la legge elettorale nel mentre e andare al voto a Marzo (Monti è rimasto in carica da dimissionario, per il disbrigo degli affari correnti, circa sei mesi, quindi tutto è possibile). Si potrebbe discutere se sia o no possibile per un parlamento sciolto procedere ad una modifica della legge elettorale.

Ipotizzando, invece, che Renzi non intenda seguire questo ragionamento o non sia in condizioni di poterlo seguire, il PD darà il suo via libera alla formazione di un nuovo esecutivo guidato da un soggetto nuovo su cui, sempre numeri alla mano, l’ultima parola sarà dei democratici. Un esecutivo non di ampio programma (perché in queste ore i gruppi parlamentari ormai già si stanno sfaldando e la maggioranza di governo attuale forse al Senato neanche c’è più), ma, si dice, di scopo, cioè un governo pensato principalmente per scrivere la nuova legge elettorale. Un governo di questo tipo, perdendo l’impronta politica, sarebbe aperto ad una più ampia fiducia parlamentare e lascerebbe al PD il tempo di un congresso prima delle elezioni, con l’incognita delle primarie in teoria aperte che riconsegnerebbero il partito proprio a Renzi, salvo capovolgimenti di fronte. Da parte di Renzi quella del nuovo governo senza di lui e del congresso anticipato sarebbe una prospettiva possibile ma meno probabile, giacché è esattamente tutto ciò che la minoranza, che gli ha appena voltato le spalle, auspica, e la candidatura del Presidente della Giunta regionale toscana, Enrico Rossi e le allusioni del collega pugliese Emiliano lo confermano. 

 

Un’ultima chiosa per spiegare la questione legge elettorale e il perché sia un nodo centrale. Si ricorderà che il porcellum, legge elettorale non particolarmente apprezzata, made in Calderoli, fu letteralmente crivellata di colpi da una Corte Costituzionale che la dichiarò illegittima in più punti, diciamo pure quelli principali. Ne rimase, dato l’intervento della Consulta che cercò di rammendare ciò che restava, il cosiddetto Consultellum, un proporzionale puro con soglie di sbarramento infime che il genio riformatore della procace ministra pensò bene, all’approvazione dell’Italicum, legge di tutt’altra concezione scritta ad hoc per la Camera, di lasciare in vigore al Senato, senza troppo riflettere sull’eventualità che la riforma costituzionale potesse eventualmente anche finire sepolta da milioni di segni di matita copiativa rigorosamente non cancellabile (Pierò Pelù se ne farà una ragione) e con essa l’elezione indiretta dei senatori.

Chi scrive si è cimentato in un calcolo e, prendendo per buone le rilevazioni dei sondaggi e operando le dovute correzioni, garantisce che il Consultellum consentirebbe nella migliore delle ipotesi un governo sostenuto da una maggioranza che vada dal PD a Forza Italia (contando che non ci siano fronde, senatori dubbiosi, malattie o scissioni). Contando anche i senatori a vita, che notoriamente non sono campioni di presenze, l’esecutivo si reggerebbe su 5 voti circa, al netto del margine di errore. Miracoli a parte, più ragionevolmente diciamo pure che con il Consultellum due fra Grillo, Renzi e Salvini dovranno mettersi d’accordo e governare insieme. Auguri.

Il M5S ieri ha proposto di applicare semplicemente l’Italicum anche al Senato e andare al voto. Una proposta da scartare in partenza per una ragione politica ed una tecnica. Ragione politica: il PD abbiamo detto che è determinante e forse è la volta buona che a Largo del Nazareno hanno intuito che l’idea del ballottaggio PD contro tutti non è la più brillante e se si può evitare questo scenario è meglio (o vogliamo raccontarci davvero che il 60% degli italiani era contrario solo al merito della riforma e le sconfitte alle amministrative di Roma e Torino sono state una distrazione?). Ragione tecnica: il Senato va eletto su base regionale e regionalizzare l’Italicum genererebbe esiti totalmente imprevedibili e una maggioranza difficilmente uguale a quella della Camera. E poi, diciamocelo, dopo il 24 gennaio, se la Consulta avrà accolto il ricorso contro l’Italicum consegnandolo ad una sorte simile a quella del Porcellum, come gestiremmo la situazione? Intervenire con una nuova legge elettorale condivisa per Camera e Senato prima di quella data risolverebbe il problema alla radice.

 

In tutto questo mare magnum di numeri, ci auspichiamo che tornino almeno quelli del bilancio dello stato che si approverà domani pomeriggio. Il governo ha posto la questione di fiducia per stroncare gli emendamenti sul nascere e accelerare il voto in aula. Su questo diciamo solo che la fiducia è utile a serrare i ranghi della maggioranza legando le sorti dell’esecutivo a quelle della proposta legislativa. L’arma in questo caso è vistosamente spuntata perché il governo porrà la fiducia qualche ora prima di dimettersi, cosa nota a tutti perché chiarito nella nota di ieri sera del quirinale. Se ti dimetti comunque, la fiducia che mi imponi non vale nulla, tant’è che alcuni si stanno già defilando, aggregandosi alle perplessità delle opposizioni che denunciano come, in questo modo, saranno legge anche gli innumerevoli emendamenti dal sapore un po’ clientelare che ad ogni legge di stabilità più o meno qualsiasi parlamentare di qualsiasi schieramento cerca di far entrare nel testo da sempre. A onor del vero i parlamentari in chiusura di legislatura si sfilano dai gruppi anche per ragioni legate alla presentazione dei simboli alle elezioni o per una ritenuta cessata funzione riformatrice della maggioranza di governo che giustificava le larghe intese. Il rischio paventato dalla maggioranza, per una mancata approvazione, sarebbe, invece, quello dell’esercizio provvisorio, non esattamente un buon biglietto da visita per gli investitori. Resta forte il sospetto che i componenti di ambo le parti, a Palazzo Madama, ambiscano a voler personalizzare un po’ il testo per non sfigurare dinnanzi all’estro dei colleghi di Montecitorio e, in questo senso, la fiducia viene avvertita come poco gradita.

 

Attendiamo il tardo pomeriggio di domani per l’edizione straordinaria dei tg in cui il Presidente Mattarella dovrebbe dare le primissime indicazioni su come gestirà le sue prerogative per amministrare la crisi di governo, anche alla luce di quanto emerso nel redde rationem in casa PD ed NCD.

 



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