26 novembre 2024
Categoria: Musica - Tags: Piero Ciampi
Valentina Piovesan | commenti |
Il vero artista è a metà strada tra la vittima e la carogna (diffidate delle imitazioni!).
Si ha un bel dire che il genio vada sempre e comunque a braccetto con la sensibilità, si fa presto a sdilinquirsi, a immalinconirsi della sua melanconia, a prendere a prestito la follia di un talento strappandone brandelli, con la stessa facilità con cui si potrebbe scotennare un pavone per trarne un patetico copricapo ornamentale, badando alla forma prima che alla sostanza.
Ma la verità è che se a un artista gli fate girare le idee, se vi va bene, vi sputerà in faccia, quasi ringhiando, S’i' fosse foco, Una vita violenta, Viaggio al termine della notte e altre delizie di questo genere, ma se vi va male vi sbatterà direttamente all’Inferno (vi dice qualcosa un certo Dante?).
Del resto perfino Caravaggio quando perdeva (o trovava?) la bussola le suonava a tutti.
E c’è stato un tempo in cui il genio (inteso come potevano recepirlo gli antichi romani, vale a dire in veste di demone) si serviva anche della musica per i suoi nobili e pugnaci scopi (ma già allora erano stati buttati i semi del buonismo corrotto tanto che il grano cominciava a finire in crusca prima che in farina): quello era il momento di Piero Ciampi.
Piero Ciampi! Chi era costui? Era uno come Dino Campana: uno che non interessa più ad alcuno, sembrerebbe, ahinoi. L’anello di congiunzione tra il poeta e il cantante, per molti. Secondo me, invece, la sua era più prosa che poesia: Hemingway senza la prosopopea di Hemingway.
Uno nato a Livorno, antica e gloriosa fucina di anime in pena e teste calde, nel 1934. E morto a Roma il 19 gennaio 1980. Fra queste due date, c’è un universo fatto di arte, rabbia e vino. C’è lo spirito del giocatore, di quello che le prende ma si rialza solo per buscarne ancora di più perché dà per scontato che alla fine vincerà il banco, ma il gusto di perdere non glielo toglie nessuno. “Ventimila, quarantamila, sessantamila […] quattro milioni! Merda!”. Questo descriveva (e viveva), Piero Ciampi: il mondo dei beoni, dei giocatori, degli emarginati, degli innamorati respinti, dei poeti acclamati e incoronati tali loro malgrado.
Quel macrocosmo tanto caro anche a Pasolini: il mondo dei sobborghi. Croce e delizia dell’arte, la miseria. Una base scarna che fa da contorno all’invettiva, al soliloquio, il flusso di coscienza di Joyce che ha come sfondo le bettole di Melville, per intenderci. Principale ambizione? Arpionare la furia bianca con le parole. Perché quando l’assenza diventa assedio, bisognerà pur andarsela a cercare una furia bianca qualsiasi, da qualche parte. E allora diventa tutto un grande “Adius”, “Portami una sedia e vattene": ed è qui che i benpensanti da quattro soldi prendono le distanze, dopo aver tentato invano di liquidare la faccenda con un sorriso di circostanza e il ridicolo appellativo di chansonnier.
Un soldato che intrappolato nella trincea dell’autoaffermazione sputa sangue combattendo se stesso può forse essere definito chansonnier? Ma l’artista, per quanto avventuriero da strapazzo, per quanto carogna calunniata, sarà sempre assolto dai suoi peccati veniali alla faccia di chi gli vuole male.
E sapete perché? Per il semplice fatto che per quanto abbrutito, finisce sempre per scorgere la luna, come il Ciàula di Pirandello. E allora Piero Ciampi poteva scialacquare in amore, vino e rassegnazione i milioni che riceveva come acconto prima di realizzare un disco, poteva imbestialirsi e inveire ma alla fine la luna la vedeva sempre e anche io la vedo brillare attraverso un disperato verismo.
Ed è forse per questo che la sua storia non interessa molto: è certamente più comodo arrancare (o non arrancare affatto) in una caverna come ciechi che uscire allo scoperto rischiando di rimanere abbacinati dalla luce della realtà. A onor del vero ogni dieci anni trasmettono in televisione uno speciale su "Litaliano" (senza apostrofo e tutto attaccato, si badi bene) dopodiché buonanotte al secchio per altri due lustri.
Spesso, come diceva Guareschi, il buon senso è solo senso comune. Il guaio è che l’arte o quello che ne rimane si è spontaneamente assoggettata a quest'ultimo che a sua volta se l’intende con l’assioma del “Purché se ne parli” e stando così le cose uno come Piero Ciampi (smaccatamente in controtendenza al punto tale di infischiarsene completamente dell’opinione pubblica) va cancellato dal monumento alla modernità con tanto di damnatio memoriae mediatica: nell’era del tweet (altrimenti detto cicaleccio) non c’è punizione più grande dell’essere dimenticati. E allora? Allora niente, “Andare, camminare, lavorare”. Anzi, twittare. E “Gli agnelli a pascolare con le capre”.
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