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18 ottobre 2024

Treviso

"Non c'é giustizia senza vita": dalla Florida a Treviso per dire no alla pena di morte

602 esecuzioni accertate nel 2015, il 75% in Medio Oriente. Seguono gli USA

| Davide Bellacicco |

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| Davide Bellacicco |

suezann bosler

TREVISO - Era il 30 novembre 1786. Il piccolo Granducato di Toscana sorprese l’Europa con una lezione di umanità abolendo la pena di morte. In occasione del 229° anniversario di quella scelta di civiltà, la Comunità di Sant’Egidio ha promosso, presso la Sala Consiliare dei Trecento, con il patrocinio dell’Assessorato alla Partecipazione del capoluogo, impegnato nella rassegna Cities for Life, l’evento Non c’è giustizia senza vita, incontro di riflessione su un tema che ancora oggi risulta assai caldo.

 

L’iniziativa, moderata da Valerio Delfino, ha visto la presenza di un relatore d’eccezione: SueZann Bosler, sopravvissuta miracolosamente alla furia cieca di un uomo che riuscì invece ad uccidere suo padre, un pastore della Florida. La donna, che dopo anni di riflessione è riuscita a perdonare il suo aggressore da tempo incarcerato («Il perdono, se sincero, è anzitutto per chi lo dona»), dopo aver testimoniato contro l’aguzzino si è prodigata attivamente per la commutazione della sua pena nel carcere a vita, rivendicando in giudizio il diritto per le vittime di essere ascoltate e tenute in considerazione laddove contrarie alla pena capitale. Una scelta che risponde alla riaffermazione del valore di una vita umana che nessun errore commesso, per quanto tragico, può sminuire. «Non voglio che esca perché può essere pericoloso per me e per gli altri», precisa SueZann, che evidenzia, tuttavia, la barbarie di cui è protagonista il suo Paese, nell’annullare l’identità e lo spirito dei detenuti nel braccio della morte, gironi infernali in cui si sperimenta la più totale monotonia, solitudine, alienazione, dove ogni giorno può essere l’ultimo o uno dei tanti e della vita non resta che una roulette russa quotidiana, fra una fine atroce e il vuoto totale. Bosler si sofferma anche su una riflessione sociologica: «Le statistiche dicono che se ad uccidere è un afroamericano è praticamente sicuro che gli venga comminata la pena di morte». Da questo punto di vista molto si dovrà fare oltreoceano per superare i residui di una emarginazione razziale che in America sappiamo essere assai risalente e mai del tutto eradicata.

 

Guardando al miglio verde su scala mondiale, in Cina le esecuzioni capitali sono oggetto di segreto di stato, ma è lecito stimarle ogni anno entro alcune migliaia. Al netto dei regimi come quello citato di cui non sono note cifre ufficiali, il 75% delle morti di stato avviene in tre Paesi, Iran, Arabia Saudita e Iraq, cui seguono, per la parte restante, le democrazie che hanno scelto di mantenere questa pena come, anzitutto, gli Stati Uniti. La risposta di Nigeria, Egitto e medio oriente al terrorismo condurrà, secondo le proiezioni, ad un netto incremento delle pene capitali comminate rispetto ad un anno fa, quando il dato, sempre non considerando la Cina, si è assestato su 607 morti. Diversi anche i reati per i quali si ammette ancora oggi il ricorso alla sedia elettrica, all’iniezione letale, alla fucilazione o alla morte per impiccagione: da alcune fattispecie relative all’omicidio nel caso degli USA (Bosler, citando Gandhi, si chiede se abbia senso «Uccidere chi uccide per dimostrare che uccidere è sbagliato»), alla semplice espressione del dissenso politico come nel caso iraniano (sarà giustiziato a breve per questo motivo un giovane condotto nel braccio della morte a soli 17 anni). Come contraltare a queste infelici statistiche, si segnala come siano stati ben cinque gli stati africani che in soli altrettanti anni hanno abrogato la pena capitale nei rispettivi codici. Precursore di questa stagione positiva, il Sudafrica, il cui governo ebbe candidamente a constatare come all’abolizione della pena capitale non corrispose un aumento di reati efferati.

 

Insomma, chi commette un reato, come ricordava di recente anche il noto magistrato Carlo Nordio, non è influenzato in alcun modo dall’aumento delle pene edittali, e questo anche se queste sono portate ai massimi livelli. Non esiste, infatti, studio alcuno che dimostri l’efficacia di questo metodo sul piano preventivo, ma il punto è un altro: si potrebbe forse asserire che in caso contrario sarebbe giusto uccidere? Basterebbe questo? Accantoniamo le follie non commentabili dei regimi citati e che sfuggono ad ogni nostra comprensione perché indirizzate alla mera repressione del dissenso (anche se resta l’amarezza del dover ammettere che è proprio ad alcune di quelle realtà che ci stiamo rivolgendo cercando partner commerciali o alleati contro il terrorismo, ma la realpolitik sfugge sempre a questi ragionamenti). La nostra Costituzione consacra la tensione alla rieducazione della pena (e, per inciso, sul punto anche l’attuale situazione carceraria italiana meriterebbe qualche riflessione in più), laddove, come sostiene Delfino, «La pena di morte toglie la speranza nel cambiamento». Certamente non si può pretendere che tutti gli stati del mondo declinino la reazione autodifensiva della società ai crimini secondo la nostra ottica figlia di un portato storico e culturale che alla persona guarda con rispetto e con l’auspicio del ravvedimento, ma una punizione che non si ponga neanche l’obiettivo di migliorare il punito, una punizione che non porta beneficio, il punire fine a se stesso, è ancora giustizia o è vendetta? E la vendetta, che difficilmente gli ordinamenti di quei Paesi consentirebbero ai privati cittadini, può divenire accettabile e persino giusta se perseguita dallo stato in nome della legge e per volontà dei consociati? Chissà cosa direbbe oggi davanti a tante contraddizioni, il nostro illuminato antenato Beccaria,cui il Granduca Pietro Leopoldo ebbe a ispirarsi promulgando il suo codice penale. Dopo 229 anni ancora si discute. E si muore.

 


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Davide Bellacicco

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