I FAMIGLIARI ENTRANO IN RIANIMAZIONE
Umanizzazione delle cure: il Ca’ Foncello ammette i famigliari nel reparto di Terapia intensiva generale
| Laura Tuveri |
TREVISO – Obiettivo umanizzare sempre di più le cure ospedaliere facendo, in questo caso, entrare i familiari in Rianimazione centrale, un reparto particolarmente delicato per le condizioni in cui giungono i pazienti. E’ uno dei grandi “tabù” ospedalieri che lo stesso personale infermieristico ha voluto scardinare.
Sono pochissimi gli ospedali italiani a concedere l’accesso ai familiari dei pazienti per le particolari condizioni fisiche del congiunto e per le complesse cure che riceve. In Veneto prima di Treviso solo l’ospedale di Mestre. Una ricerca di tre anni fa ha evidenziato che in Italia i nosocomi ad aprire le porte della terapia intensiva ai famigliari erano solo lo 0.4%. In altri paesi europei è una prassi abbastanza usuale. In Svezia e in Inghilterra le porte della rianimazione sono aperte rispettivamente nel 70% e nel 50% degli ospedali.
Da sin: Tessarin, direttore del Ca' Foncello, Dario, direttore generale dell'Ulss 9, Sorbara, direttore Terapia intensiva generale, Quagliotto, caposala Terapia intensiva
L’accesso sarà ancora più ampio rispetto agli altri reparti perché i pazienti potranno essere avvicinati dai parenti ogni giorno, per ora, dalle 15. alle 21, potendo colloquiare con il medico alle 17. Può entrare in stanza un parente alla volta e se il paziente è cosciente può anche decidere a chi, eventualmente, negare l’accesso. Attraverso questa bella iniziativa, denominata “Rianimazione Aperta”, il personale della Terapia intensiva generale del Ca’ Foncello, diretta dal dr. Carlo Sorbara, vuole prendersi carico anche dell’aspetto relazionale del paziente e dell’importanza che i famigliari possano stargli vicino in un momento così delicato, che nel 10 per cento dei casi si conclude anche con il decesso, è partita il 21 marzo ed è per ora un progetto sperimentale fino a fine anno.
Non si tratta, infatti, della semplice istituzione di un orario di visita ma di un progetto, preparato da uno specifico gruppo di lavoro del reparto, che punta al coinvolgimento dei familiari nel percorso clinico dei pazienti. Il personale sanitario e infermieristico, coordinato dalla capo sala Catia Quagliotto, per un anno ha studiato nei minimi dettagli l’iniziativa affinché tutto potesse funzionare nel migliore dei modi, supportato anche da una psicologa che ha tuttora il compito di illustrare il miglior modo per relazionarsi con i famigliari a cui viene chiesta la collaborazione nel garantire igiene, rispetto delle privacy e del lavoro dei professionisti nelle fasi acute dell’assistenza.
La Terapia intensiva dispone di 10 posti letto e ospita circa 800 pazienti l’anno, con un tasso di mortalità del 10% fra i più bassi in Italia. Qual è la tipologia di pazienti che arriva in reparto? Si tratta di chi ha subito un politrauma della strada, i post operati complessi, di pazienti per cui necessita la gestione delle insufficienze multi organo, ma anche delle complicanze respiratorie (come ad esempio nei recenti casi di influenza H1N1), meningiti, stati infettivi gravi.
L’ospedale sta predisponendo anche un questionario all’utenza per raccogliere suggerimenti per rendere il servizio sempre più funzionale per il bene di pazienti, famigliari e anche personale. Entro fine anno il progetto si concluderà con la stesura della carta dei servizi definitiva con le nuove modalità di accesso. Si tratta di un progetto pilota per le altre terapie intensive dell’Ulss 9.
“Con questo progetto - ha detto Claudio Dario, direttore generale dell'Ulss 9 di Treviso - stiamo dando un grande contributo a quell’umanizzazione dell’ospedale che riteniamo imprescindibile dalla nostra organizzazione sanitaria. Al paziente va garantita la giusta cura ma anche il diritto al suo contesto relazionale. Sono lieto che questo progetto sia stato fatto proprio dall’azienda in seguito a una proposta venuta dal personale stesso della Rianimazione e raccolta dal dr. Sorbara. Il risultato è un orario di visite di ben 6 ore, già di per sé innovativo, ma soprattutto una personalizzazione della disponibilità di presenza dei familiari, nel rispetto delle richieste del paziente e possibilità di supporto psicologico sia al degente che ai familiari. E’ un clima più familiare e quindi più umano per alcuni dei nostri pazienti più gravi e fragili”.
Dario ha intenzione di aprire le porte anche di altri due reparti di Rianimazione, quando sarà completata la “Cittadella sanitaria” quello della neurochirurgia e della cardiochirurgia. Per il reparto di terapia intensiva dove sono ricoverati i bambini le porte sono sempre state aperte.
“E’ un nuovo modello organizzativo di lavoro in Terapia intensiva - spiega il dr. Carlo Sorbara, - che ha come obiettivo il miglioramento della qualità delle cure offerte al paziente “critico”, considerandolo nella sua integrità psico-fisica, fatta di bisogni biologici, psicologici e relazionali. Da un modello di Terapia intensiva “chiusa” centrato sull’aspetto medico si passa ora ad uno che si focalizza, oltre che sulla cura medica del paziente, che resta la priorità, anche sulla umanizzazione delle cure e sulla presa in carico della persona malata, con evidenti ricadute positive, ampiamente riconosciute dalla letteratura scientifica, sull’outcome clinico del paziente, ma anche sull’esperienza vissuta dai familiari e sulla soddisfazione nel lavoro degli operatori sanitari (medici, infermieri e personale di supporto). Entrare in Terapia intensiva è un evento improvviso, violento, non previsto, è anche un trauma psicologico e spesso il ricordo a distanza del paziente e dei familiari è percepito in modo negativo, indipendentemente dalla evoluzione clinica della malattia”.
Il primario spiega che l’aver dato la possibilità al familiare di stare vicino al proprio congiunto in un momento difficile risponde al bisogno di vicinanza, di informazione, di rassicurazione e di conforto, che finora moltissimi ospedali sottovalutano. “Questo allontanamento forzato del familiare, vissuto a volte quasi come un esproprio del proprio congiunto, determina ansia, frustrazione, sfiducia, fino a episodi di depressione nel parente, e contemporaneamente produce nel paziente solitudine, paura, senso di isolamento e di abbandono, fino a forme più cliniche di allucinazioni e di delirio. Il paziente, ricoverato in un ambiente supertecnologico, come è la Terapia intensiva, subisce – prosegue Sorbara - quasi un “bombardamento sensoriale”, e quindi cerca istintivamente qualcosa di familiare (suoni, luci, odori, oggetti, foto) che gli permetta di ricollocare in futuro quell’episodio all’interno della propria vita. La rianimazione aperta, attraverso la riduzione/eliminazione delle barriere a livello temporale, ma anche fisico e relazionale permette di colmare questi momenti di vissuto drammatico, di percezione negativa di un evento che comunque verrà ricordato sia dal paziente che dalla famiglia tutta la vita”.
Soddisfatta del risultato ottenuto la capo sala Catia Quagliotto che spiega quanta più soddisfazione ricevono anche gli stessi operatori nel constatare maggior tranquillità da parte dei pazienti e famigliari più rassicurati circa le condizioni di salute del proprio congiunto sapendo che possono vederlo e seguire le fasi della sua degenza e, nella peggiore delle ipotesi, poterlo accompagnare nella fase del decesso.