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22 novembre 2024

Cronaca

VERSO L'8 MARZO. Ecco come si può chiudere il gender gap degli assistenti virtuali

Voci quasi sempre femminili e atteggiamento dimesso: gli assistenti virtuali e i chatbot spesso alimentano bias negativi basati sulla differenza di genere

| Ilaria Frare |

| Ilaria Frare |

Assistente virtuale

ITALIA - Un fenomeno trasversale che riguarda tutti i settori ma, come rivela lo studio di LivePerson, in campo tecnologico la situazione fa ancora più complessa. La società americana ha infatti preso a campione i suoi consumatori, chiedendogli di dire il primo nome di donna leader nel settore tech che gli venissi alla mente. Oltre il 91% degli intervistati non è stato in grado di dare una risposta, ed un quarto degli stessi ha indicato Siri o Alexa, gli assistenti vocali di Apple e Amazon, come “top manager” del comparto.

Il quadro desolante si rispecchia anche nel mondo virtuale: le grandi aziende che si avvalgono dell'ausilio di chatbot o assistenti per interagire quotidianamente con le persone, spesso li commissionano senza considerare l’impatto che possono avere sulla comunità. Una superficialità che ha contribuito a rafforzare una serie di stereotipi legati a razza, età e soprattutto genere. Secondo l’Unesco, sempre più spesso gli assistenti virtuali rafforzano e diffondono i pregiudizi di genere. Al punto da essere diventati un modello di tolleranza delle molestie sessuali e degli abusi verbali.

“Arrossirei se potessi” è il titolo di un documento realizzato sul tema dall’agenzia dell’Onu che ha preso in prestito la risposta data da Siri agli utenti che le dicevano “Ehi Siri, sei una stronza”. E, sebbene nel 2019 il software sia stato aggiornato per replicare “non so come rispondere a questo”, la sottomissione dell’assistente virtuale di fronte all'abuso di genere di fatto è rimasta la stessa dal 2011. Un servilismo che codifica alla perfezione i tanti pregiudizi di genere che condizionano il mondo della tecnologia e diventano ancora più evidenti nel gap delle competenze digitali. Anche perché il risultato dei chatbot è quello di rendere le donne il "volto" di difetti ed errori che derivano dai limiti di hardware e software progettati prevalentemente da uomini.

La problematica emersa dallo studio si inserisce all'interno di un più ampio dibattito sulla disparità di genere più attuale che mai. Una disparità che emerge lampante anche nel mondo “tech”: oggi infatti le donne hanno il 25% di probabilità in meno rispetto agli uomini di imparare come sfruttare la tecnologia digitale per scopi di base, 4 volte meno la probabilità di sapere come programmare un computer e 13 volte in meno la probabilità di depositare un brevetto tecnologico. Una lacuna che dovrebbe suonare come un campanello d’allarme nel momento in cui la tecnologia è parte integrante della gran parte dei settori economici.

Senza dubbio diversità e inclusione sono diventate le parole d’ordine del giorno per i grandi marchi, ma in questa lotta agli stereotipi il cambiamento non può prescindere dal ruolo degli assistenti virtuali. L’intelligenza artificiale potrebbe infatti rappresentare lo strumento perfetto per abbattere queste barriere alimentando i bias o combatterli. Le aziende chiamate in causa non possono scegliere di restare neutrali, e dovranno essere in grado di produrre un'alternativa: degli assistenti virtuali in grado di elaborare un linguaggio naturale, scevro da condizionamenti, e capace di ribellarsi ai pregiudizi.

L'azienda italiana specializzata in intelligenza artificiale e linguistica computazionale Indigo.ai ci sta già provando con ChatbotPersona, un tool studiato per definire ogni aspetto della personalità del chatbot. Uno strumento che può fare la differenza nel processo di democratizzazione degli assistenti virtuali, segnalando tutte quelle azioni che sono state programmate in modo involontariamente sessista, o razzista, e indicando una strada alternativa. Un dispositivo innovativo dunque, che è già stato messo alla prova nel percorso di studi della NABA - Nuova Accademia di Belle Arti insieme agli studenti di Design Management, per guidarli nella progettazione di interfacce conversazionali costruite attorno alle esigenze degli utenti e, allo stesso tempo, attente agli aspetti etici.

 

 


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Ilaria Frare

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