La "Renga" del Venerdì Santo

Storia e tradizione di un piatto da gustare proprio in questo giorno. Ecco perché

| Giampiero Rorato |

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TREVISO - Che l’aringa sia un pesce strettamente collegato alla Quaresima e in particolare al Mercore grôt (Mercoledì delle Ceneri; aegrotus: triste, ammalato) e al Venerdì Santo, soprattutto nelle terre che furono della Serenissima, è cosa ormai ampiamente risaputa.

E la tradizione di consumare questo pesce del mare del Nord risale ad anni molto lontani ed è strettamente collegata al precetto della Chiesa di astenersi dalle carni e digiunare nel periodo quaresimale, anche in ricordo dei 40 giorni trascorsi da Gesù nel deserto prima di iniziare la sua missione in Galilea e poi in Giudea. In quei tempi lontano in Itali da noi non esisteva l’aringa, non la si conosceva proprio. Fu papa san Leone Magno (+461), ricollegandosi sia alla tradizione ebraica che ad una scelta diffusa nel IV sec. presso i monaci del Vicino Oriente, ad estendere per primo al mondo cattolico il dovere di astenersi, in Quaresima, “dalle carni e dai peccati”.

L’arrivo dell’aringa

È molto probabile che l’aringa sia giunta a Venezia con i primi Ebrei ashkenaziti qui arrivati, cioè con gli Ebrei provenienti dal Nord della Germania, scesi al di qua delle Alpi sia per fuggire da territori in cui erano emarginati e dove la vita era difficile, sia per poter vivere in libertà e sicurezza la loro religione.

Gli Ebrei provenienti del Nord della Germania erano detti ashkenaziti, poiché la regione del Reno era detta in ebraico medioevale “Ashkenaz”. Si sa che nelle regioni nordiche c’era abbondanza di aringhe e i pescatori delle città costiere ne avevano scoperto il valore, dal momento che i commerciati nordici, riuniti nella Lega Anseatica le acquistavano per rivenderle dalla Gran Bretagna, all’Olanda, al Nord della Francia, alla Danimarca e fino alla Polonia.

Gli Ebrei ashkenaziti, visto il bassissimo costo della aringhe, ne avevano fatto un alimento molto normale e, quando lasciarono i loro paesi per arrivare a Venezia (fermandosi a Mestre), fecero conoscere anche ai veneziani questo pesce, ottimo perché poteva essere conservato a lungo.


 

Renga e Scopetòn o Cospetòn


Per capire la diversità dei nomi con cui viene chiamato questo pesce nel dialetto veneto, credo ci si debba fidare di Giuseppe Boerio il quale nel 1856 pubblicò il più serio “Dizionario del dialetto veneto”, ancora validissimo.

A proposito dell’aringa, scrive: “Renga, Aringa, Pesce di mare notissimo, detto da Linn. Clupea harengus. Si pesca nei mari del Nord, e perviene a noi fumato [affumicato] e disseccato, dopo d’essere stato per qualche tempo in salamoia. Questo stesso pesce, quando è salato e stivato in barili, si chiama da noi Cospetòn.”

Se poi, come suggerisce il Boerio, andiamo a vedere come definisce l’altro termine, leggiamo: “Cospetòn, o più comunemente Scopetòn. Pesce di mare che a noi perviene salato e stivato in barili come le sardelle, ed è precisamente l’Aringa senza uova e senza latte, conciata in salamoia.”

Secondo il Boerio, lo Scopetòn, non avendo né uova né latte è l’aringa maschio, mentre la renga avendo quindi uova e latte è la femmina. Entrami, per conservarsi a lungo dopo la pesca, vanno dapprima messi in salamoia, quindi disseccati e affumicati.

 

Una leggenda popolare

Ovunque in Italia, per raccontare quanto grande fosse la povertà della quasi totalità della popolazione, in particolare dei contadini, si racconta che in Quaresima veniva acquistata un’aringa per casa, poi legata per la coda con un filo attaccato al soffitto della cucina, sopra la grande tavola comune e i poveri contadini con un pezzo di polenta in mano la accarezzavano per prenderne i profumo e in questo modo si saziavano. Naturalmente è una leggenda anche piacevole, ma priva di qualsivoglia fondamento.

Della “Sagra dea renga” che storicamente si celebra a Concordia Sagittaria, Motta di Livenza e Serravalle (Vittorio Veneto) il Mercoledì delle Ceneri abbiamo già scritto in precedenza.

 

Due ricette per i lettori di OggiTreviso

Renga cota soto la cenare: (ricetta storica). Dopo averla messa in acqua per dissalarla, e adeguatamente mondata e diliscata, ungila d’olio e avvolgila in un cartoccio di carta oleata e mettila a cuocere sotto la cenere del focolare.

Renga bollita in acqua e latte. Mondala, ricavane i filetti e falli bollire per 5 minuti in acqua e latte. Lasciali raffreddare, levali dal liquido, asciugali e poi insaporiscili o con abbondanti anelli di cipolla, irrorandoli dolio evo, lasciandoli marinare per qualche ora per poi servirli con un goccio d’aceto e un pizzico di pepe. Oppure sostituisci la cipolla con aglio e prezzemolo finemente tritati.
 

 



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Giampiero Rorato

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