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03 maggio 2024

Treviso

Due parole con... Riccardo Pittis

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Due parole con... Riccardo Pittis

TREVISO - Classe 1968, due metri e rotti di altezza, dai “vecchi” a Milano era soprannominato “acciughino” per la sua magrezza. Ma negli anni si è imposto come uno dei migliori cestisti italiani all time. Non occorre essere tifoso dell’Olimpia oppure dell’allora Benetton: Riccardo Pittis è nome notissimo tra tutti gli appassionati di basket. Infatti, è stato uno dei più forti giocatori tra la metà degli anni ’80 e il 2000. Dal '93 ha indossato la maglia di Treviso, dove ha vissuto 11 intense stagioni chiudendo la propria carriera nella Marca: a Treviso vive tuttora.

E proprio lui a Treviso è stato uno degli attori principali della rifondazione della società dopo l'abbandono della famiglia Benetton. È stato lui, insieme all’altra leggenda del basket trevigiano Paolo Vazzoler, a realizzare Consorzio Universo Treviso per la rifondazione societaria.

Di lui proprio il presidente Paolo Vazzoler (in foto sotto) ha detto: «In campo siamo stati solo avversari ma siamo diventati “complici” nell’operazione di TrevisoBasket. Direi che siamo due “pazzi” con la stessa passione».



Dopo un anno di Promozione Provinciale (e palazzetti sempre stracolmi di tifosi) ha ottenuto una wild card per la partecipazione alla Divisione nazionale B. Poi nel 2013 è diventato General Manager della squadra che oggi si chiama e Longhi Treviso Basket. Dalla stagione 2005-06 è commentatore televisivo per Sky Sport e a partire da marzo 2010 è stato anche Team manager della Nazionale italiana di pallacanestro.

Comincia un altro campionato a Treviso. Quali ambizioni?

«Per Treviso comincia una stagione molto importante, perché dopo la bellissima annata alle spalle quest’anno si partecipa a un torneo sicuramente più impegnativo. La squadra è stata comunque ben costruita: l’ambizione è di continuare a crescere e consolidare la nostra realtà. Per consolidarsi occorre chiaramente confermare sul campo ciò che è stato dimostrato l’anno scorso, cioè un grande impegno da parte di tutti. Se ci sono i risultati, tanto meglio: chiaramente è questo il fattore più importante. Altro obiettivo è che la gente si affezioni ancora di più a questa squadra».

A Treviso, sul parquet, sei stato un protagonista. Che differenza c’è oggi tra il campionato di allora e quello di oggi?

«Ci sono grosse differenze. Allora era un altro tipo di basket, era un’altra epoca e soprattutto non c’erano le difficoltà economiche che caratterizzano il presente. Alle spalle avevamo una famiglia importante, uno sponsor consolidato, una proprietà che ha permesso a Treviso, una piccola realtà cittadina all’interno del panorama europeo, di essere comunque una delle società più importanti che ha vinto molto sia in Italia che in Europa. Tecnicamente forse c’è stato un livellamento verso il basso; tuttavia c’è stata una crescita dal punto di vista fisico».

Dopo l’uscita di scena della famiglia Benetton, anche il Basket è dovuto ripartire da zero. il tuo impegno in questo senso e’stato al 100%: perché questa scelta?

«Veder sparire per sempre una parte così importante della mia vita avrebbe fatto male al cuore. Io, insieme ad altre persone, ci siamo impegnati al massimo per continuare in questa gloriosa tradizione sportiva. Anche con un altro nome, anche con altri colori: si tratta comunque di una parte di Treviso. Sarebbe stato davvero un peccato che tutto questo finisse così».

Quale il ricordo più bello legato alla “tua” Benetton?

«Di ricordi belli ce ne sono tanti. Di conseguenza è davvero difficile estrapolarne uno in particolare. Se proprio dovessi scegliere quello che più mi è rimasto impresso, forse direi il mio primo scudetto finto nella Marca, il secondo di Treviso. Era il 1997 ed eravamo al culmine di un percorso nato con quella squadra. Un ricordo straordinario».

Ancora uno sguardo al passato. Quando giocavi a Milano eri un giovane in mezzo a tanti campioni in una squadra che vinceva le Coppe Campioni. Ci racconti un a aneddoto?

«Anche in questo caso ce ne sono tantissimi e andiamo talmente indietro nel tempo che si fa quasi fatica a ricordare. Mi viene in mente un match al termine della mia prima stagione, forse un po’ la mia consacrazione nel basket professionistico ma soprattutto in quello spogliatoio. Era la finale contro Caserta nel 1987 in cui, giovanissimo e in una situazione disperata, sono stato buttato in campo da coach Dan Peterson. Fu una di quelle giornate dove tutto riesce facile. Misi a referto dieci punti che furono in pratica fondamentali per la vittoria. Fu la gara che ci fece vincere lo scudetto. Quello fu forse il momento esatto in cui divenni parte integrante di quella squadra».

L’esperienza milanese quanto e’ stata importante per la tua crescita come giocatore e poi come dirigente ?

«Direi che fu fondamentale, in quanto sono nato e cresciuto oltre che personalmente anche cestisticamente a Milano. Ho iniziato a giocare nell’Olimpia quando avevo solo otto anni e di conseguenza all’ombra della Madonnina ho vissuto forse gli anni più importanti per un giocatore, ossia quelli della crescita e della formazione come atleta. A livello di dirigenziale direi che… non ho mai cominciato. Mi spiego: io fondamentalmente non ho mai avuto un ruolo da dirigente attivo nel mio post carriera. Al di là della carica di team manager della nazionale, che però non ha compiti manageriali veri e propri, sono stato anche general manager di Treviso basket, che in questo caso è stata una carica onorifica soprattutto nel momento in cui abbiamo iniziato questa avventura».

Qual è stato il giocatore più importante con cui hai giocato? E quello che ti ha fatto crescere di più?

«Le due figure coincidono. Il giocatore più importante della mia carriera è poi quello che mi ha fatto crescere in maniera maggiore. Mike D’Antoni e’ stato il mio idolo quando ancora ero tifoso e andavo in curva a tifare Olimpia e lui era il mio giocatore preferito. Poi il destino ha volutoche divenisse mio compagno di squadra e mi ha aiutato a crescere tecnicamente facendomi lavorare ore extra in palestra. Dopo di che è diventato il mio allenatore prima a Milano e poi a Treviso. Quindi, con Dino Meneghin, lo considero il mio padre cestistico».

Da tanti anni sulla breccia, cosa consigli ai giovani che si avvicinano a questo sport e allo sport in generale?

«Non amo dare consigli. Quello che posso dire è seguire il proprio istinto e divertirsi in qualsiasi cosa si faccia, sia sporto o altro. La passione per me è stata la benzina, la spinta che mi ha permesso di raggiungere risultati importanti. Alla fine però non sono i risultati in senso stretto a contare, ma il fatto di strare bene ed essere felici in qualsiasi cosa vuole fare. Questo è valido per la pallacanestro, per lo sport in generale e in tutti gli ambiti della vita. L’elemento fondamentale è la passione».

Agli europei in nazionale da giocatore hai vinto due argenti. Come giudichi la squadra di coach Pianigiani con ben tre stelle Nba?

«La nazionale ha concluso un bellissimo percorso nonostante un inizio difficile nella partita di esordio con la Turchia. Ha messo a segno imprese memorabili battendo Spagna e Germania per poi passare al secondo turno giocando un buon basket nonostante l’infortunio di giocatori importanti come Datome, che l’Nba l’ha giocata l’anno scorso. Oltre alle stelle in Nba hanno fatto bene tutti i ragazzi che a turno hanno saputo dare qualcosa dìimportante, a partire da Gentile (ex Treviso, nda) per poi passare a tutti gli altri ».

Maria Covelli

 


| modificato il:

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