17 gennaio 2025
Categoria: Fotografia - Tags: Kevin Carter, Fotoreporter, Premio Pulitzer, NY Post, Etica fotografica, New York, Metropolitana, Sudan
Un caso di cronaca, lo scorso mese, ha fatto il giro del mondo suscitando parecchio scalpore.
In sintesi: ai primi di dicembre a New York un uomo in una stazione della metropolitana viene spinto da uno squilibrato e cade dalla banchina sulle rotaie: l’uomo non riesce a risalire, e muore investito dal vagone della metropolitana che stava arrivando. Fin qui, sembra solo una brutta notizia, simile purtroppo a molte altre. Perchè quindi lo scalpore? Il quotidiano New York Post pubblicò il giorno dopo in copertina (e con un ampio servizio interno) le foto dei tentativi dell’uomo di alzarsi e risalire sul marciapiede della banchina: un fotografo del quotidiano si trovava sul posto, e aveva immortalato la scena.
La polemica divampata velocemente verteva sul comportamento del fotografo in quei momenti disperati: in molti si sono chiesti se non sarebbe stato meglio provare a salvare la persona invece che assicurarsi lo scoop della morte in diretta. Il fotografo in merito si è sperticato in varie giustificazioni: “ero troppo lontano e non ho avuto tempo di salvarlo” (ma la sequenza e il tipo di ottica usata qualche dubbio lo hanno fatto nascere), “ho provato ad avvisare l’autista con il flash” (ma le foto sono tutte ben composte e inquadrate)…
Cambiamo per un attimo spazio e tempo.
Saltiamo al 1993, in Sudan. Il fotografo Kevin Carter si trova nel campo di una missione ONU. Sta fotografando un bambino denutrito, riverso su se stesso. A pochi metri di distanza dal bambino c’è un avvoltoio che lo fissa, in chiara e paziente attesa di un magro pasto. Kevin aspetta un po’, attende per vedere se l’avvoltoio apre le ali per rendere la scena ancor più drammatica, e alla fine se ne va, lasciando il bimbo al suo destino. Quello scatto gli fece vincere il Premio Pulitzer nel 1994 ma innescò una grossa polemica e Kevin fu fortemente criticato.
"Sudan vulture" di Kevin Carter, premio Pulitzer
Alla domanda su cosa fosse successo dopo lo scatto e se avesse aiutato il bimbo, Kevin non rispose mai. Arrivò a odiare quella fotografia, ne era ossessionato. Il 27 luglio dello stesso anno Kevin si suicidò nella sua auto, lasciando un biglietto che citava tra i motivi della sua decisione la disperazione per tutto quello che aveva visto nella sua carriera di fotoreporter.
Quello che mi fa riflettere di questi due casi simili è il dilemma che può presentarsi a un fotografo mentre fa il proprio lavoro: essere testimone ininfluente della realtà o diventarne protagonista e magari posare la macchina fotografica? Scelta difficile, da valutare caso per caso, secondo le conseguenze che può avere quel “non fare nulla”, e in funzione della propria scala di valori. Voi che dite? La vita di una persona vale lo scoop in prima pagina o un premio Pulitzer? Ammesso e non concesso che fosse in potere dei fotografi salvarle.
Come sono finite queste storie?
L’uomo in metropolitana è morto. Forse il fotografo poteva, o forse non poteva fare qualcosa per salvarlo: il fatto è che sembra non ci abbia nemmeno provato. Non ha posato la macchina. Ma nemmeno nessuno altro dei presenti, a quanto pare.
E il bimbo sudanese? Che fine fece? Ci ha pensato il quotidiano spagnolo El Mundo nel febbraio del 2011 con una sua indagine a dare una risposta (qui in italiano): il bambino sopravvisse sia all’avvoltoio che alla denutrizione. Ma purtroppo morì dopo quattro anni per febbre.
Andrea Armellin
Fotografo e grafico. Spande la fotografia a piene mani ovunque gli riesca
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Patrizia Gasp
27/01/2013 - 9:53
valori
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Rosa Fanes
01/02/2013 - 17:46
Non c' è dubbio: posare la
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