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26 novembre 2024

Vittorio Veneto

Vittorio Veneto: tutto quello che avresti voluto sapere sul Monte Altare

È un po’ il simbolo di Vittorio Veneto. Un monte che in realtà - vista la sua altezza - è un colle

| Roberto Silvestrin |

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| Roberto Silvestrin |

monte altare

VITTORIO VENETO - Antares o Altare? Storia (etimologica) e misteri di un monte che non è un monte. In quanto a misteri, si può partire dal nome. Un po’ come decidere la primogenitura fra l’uovo e la gallina. Dunque: Altare o Antares? Quest’ultimo, latineggiante, toponimo compare in un atto notarile del 1398 e così chiamavano la collina, fino a un paio di generazioni fa, molti vittoriesi dalle antiche ascendenze autoctone.

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Una corrente di pensiero, con tanto di calcoli di paleoastronomia, lo vorrebbe rapportare alla stella Antares. Un’ altra - molto romantica ma un po’ macchinosa- alla stella Venere dea dell’ amore in quanto antagonista (la anti-Ares, dalla cui fusione… Antares) di Ares-dio della guerra. Altare con la “elle” deriverebbe invece dal masso squadrato piantato giusto sulla cima che si vuole sorreggesse l’ altare (appunto) sul quale i sacerdoti cleromanti lanciarono per secoli le sortes. Erano queste delle specie di tarocchi per predire, a pagamento, il futuro ai pellegrini che ansimanti salivano fin lassù sperando di poter controllare il proprio domani. Su quel masso, ancora oggi, c’è chi paganeggiando appone i palmi delle mani convinto di poterne trarre misteriose energie tettoniche, anche guaritrici. Dopo il pendolio secolare fra le due prime consonanti di Altare ed Antares il toponimo venne decisamente stabilizzato dalla edificazione della Croce che non poteva che essere elemento costitutivo di un Altare. Vada pure, questo però non risolve il quesito su come esso si chiamasse in origine. Ma giriamo pagina. Perché mai definirlo “Monte” se, nonostante la orogenesi stia continuando a spingerlo su di ben mezzo millimetro all’anno, esso non supera i 450 metri sul mare? Vien da rispondere che anche se molto arrotondata dalla pingue vegetazione, l’ aspra ossatura del rilievo, con certe creste a strapiombo, veramente vertiginose, dona alla collina un aspetto montano. Sarà pure mignon ma sembra proprio una montagna, perbacco! E, questa pesa molto, c’è pure una ragione scientifica. L’ Altare infatti a differenza di altri rilievi del circondario non deriva dagli ammassi di fine corsa del ghiacciaio del Piave, che spinse fino alla Padania il ciotolame partito dalle Dolomiti ai tempi in cui in Fadalto giravano i mammut. Esso, bensì, deriva da poderose pressioni geologiche che hanno sollevato i sedimi orizzontali dell’antico mare fino ad impennarli in verticale. In pratica l’Altare, dinamicamente, ha avuto la stessa tipologia di gestazione delle Alpi o dell’Himalaya . E scusate se è poco. Un altro paio di misteri, ma c’è roba da scriverne un libro. L’ Antares – alterno il toponimo per non far torto a nessuno - è ricchissimo di ottima acqua, un po’ pastosa, saporita, saziante. Ci sono delle sorgenti, sul versante settentrionale che rarissimamente si prosciugano, anche durante lunghi periodi siccitosi. Da dove arriva quest’acqua visto che il catino di raccolta è veramente esiguo e limitato alla medesima collina, non ci son certo nevai ad alimentarlo, e che il possente bosco se ne beve una enorme quantità? Si azzarda che tali vene d’oro blu derivino addirittura dal Visentin da cui percolino sopra tratti impermeabili argillosi fino ad andare a sbattere contro le creste in conglomerato dell’Altare ed esser colà costrette a risalire, per vasi comunicanti, fino a zampillare. Per chiudere… la misteriosa vera di pozzo con iscrizioni arcaiche simil druidiche che sarebbe interrata sul versante nord, tra la Cresta grande e quella della Croda bianca. Tale pozzo, è plausibile, sarebbe servito a dissetare l’insediamento “paleovittoriese” che già dall’ XI sec a.C. era strategicamente attestato sulla cima, sul Col Maledicto. Io un’idea ce l’avrei di dove può trovarsi questo pozzo.

 

La Croce

La Croce, in quel suo preciso contesto: un bilanciamento perfetto di magnifico panorama, prorompente ecosistema, storia e identità, impulso alla meditazione, occasione di rigenerazione psicofisica. Costruita su un’antica cima del Monte Altare venne concepita come Monumento ai Caduti di tutte le guerre. Nella baricentrica visibilità e potenza evocativa la sua collocazione proprio in quel luogo risultò dal ridimensionamento delle ambizioni memorialistiche che dopo la guerra del ’15-’18 volevano celebrare la Grande Vittoria appena conquistata. Per oltre tre decenni si discusse, infatti, su un manufatto che potesse rivaleggiare persino con Redipuglia. Il che, il sognare in grandissimo per poi concretizzare l’assai meno, talvolta il nulla, rientra in vasta aneddotica che il nostro Ido Da Ros racconta nei suoi sorprendenti “Libri dei sogni”. Basti come esempio che nel 1923, l’anno in cui Vittorio guadagnò il predicato “Veneto”, il progetto Fineschi prevedeva sulla cima dell’Antares un tempio alto 64 metri per 58 di larghezza contornato da otto gruppi in bronzo con l’epopea della gloria italica, quattro grandi scalinate, un potentissimo faro che illuminasse la pianura veneta fino a Udine e Venezia e perfino due nuove strade che vi accedessero. Tale faraonico mausoleo, come altri, svaporò. Per fortuna visto che, sconvolgendo la cima avrebbe anche distrutto il Col Maledicto con la celebre Scalinata dei Cleromanti, primo insediamento certificato dei paleo-vittoriesi Homines Cenetenses (come documentato dalle ricerche di don Antonio Moret). Ma quel punto della cresta collinare evoca anche un altro evento miliare. Il 6 luglio 1866, poco dopo la battaglia di Sadowa e alla diceria che il Veneto fosse già passato al Regno d’Italia, mentre in città esplodeva un incontenibile giubilo con corollario di sfregi, subito repressi, contro il governo austriaco, proprio lassù e per la prima volta i ferventi patrioti cenedo-serravallesi issarono in anteprima assoluta il Tricolore. Né si può tacere che il 1° Maggio del 1944, mentre i nazifascisti spadroneggiavano in città, gli uomini della Resistenza lì collocarono nottetempo una bandiera rossa dopo che da un ventennio era stata abolita, tra altre “cosucce”, la Festa dei lavoratori. Una volta realizzato nel 1953, il monumento venne peraltro usato spesso, con libera creatività, come vetrina per messaggi di vario tipo. Dalla bandiera arcobaleno della Pace in concomitanza di gravi crisi geopolitiche, alla bandiera rossa per il Primo maggio, a quella Tricolore in festività civiche, a quella rosa per il Giro d’Italia, alle preghiere tibetane… fino ai più recenti “Andrà tutto bene” durante il Covid e alla bandiera ucraina dopo l’attacco russo a Kiev. Ma la Croce ha sofferto anche l’oltraggio di panoramici pic-nic, con lascito di cicche, resti di pasteggio, demenziali scritte vandaliche, danni al sistema di illuminazione al recinto e alle funi di sicurezza. Subì anche una singolare rimbeccata, all’epoca della sessantottina contestazione studentesca. Un puntiglioso anonimo, a pennello nero, censurò tratti del testo inciso sulla lapide marmorea ancor oggi incastonata ai suoi piedi e redatto da mons. Sartori. Un testo che, a dire il vero, un tantino risente di certa retorica anteguerra; ma la storia è storia e non va manomessa sulla base di sentimenti postumi e soggettivi, fossero anche giusti. La ruggine e le scritte vandaliche che oramai coprivano il manufatto vennero sanati nel 2017 da una spettacolare operazione di restauro finanziata dalla Regione Veneto alla vigilia del Centenario della Vittoria, ad opera di una ditta di sgaggiatori del Comelico. A proposito di funambolici interventi non si può che provare stupore e gratitudine per i giovani dell’ Azione Cattolica che nell’estate del 1953, gratis et amore Dei (“gratis” inteso anche come “senza compenso”) a spalle portarono a quota 360m cemento, acqua, pietre, impalcature, attrezzi e il pesante traliccio in ferro 10x4 metri. Per sollevare quest’ultimo, uno spezzone del quale supera i tre metri, usarono un ancoraggio ancora visibile su due massi a ovest della Croce; venne così superato anche l’ultimo strappo di salita, un piastrone verticale di conglomerato. Su quella parete lo spezzone venne fatto salire accudito da ardimentosi scalatori. Troveremmo oggi giovani motivati a realizzare, per di più gratis, una simile operazione? Il compleanno della Croce cade dal 1953 il 27 settembre (…e son 75!) perché a quella data essa venne benedetta e vennero collocate alla sua base, da tre staffette partite dal Piave, dall’Isonzo, da Trieste le urne con le terre impregnate di sangue. Coincidenza: il 27 settembre (dal 1866) si celebra anche il compleanno della città di Vittorio Veneto. Attualmente la linea elettrica che illumina la croce, con l’abbraccio materno che veglia ogni notte sulla città, è in pericolosa fatiscenza: andrebbe interrata per questioni di estetica e sicurezza. Un appello è dunque dovuto al sindaco per risolvere l’emergenza e, magari, perché venga ricordato con degna cerimonia questo 75° compleanno. Lassù, tra l’azzurro e la brulicante pianura, accarezzati dalle brezze di mare e di monte che, or l’una or l’altra, da milioni d’anni, si rincorrono fra le Dolomiti e l’Adriatico.

 

La colonizzazione dei palmizi

Sul monte Altare stanno fiorendo le palme di montagna. A scapito di altre piante autoctone. La progenitrice si trovava, e la sua discendenza ancor vi alberga, nel giardino dello Stabilimento Termale dotato di “acque salso-bromo-iodico-solforose leggermente ferrugginose e litiche” aperto dal dott. Coletti nel 1889 a Salsa; pendici est Monte Altare, appena oltre la ferrovia, dietro l’albergo Terme ora chiuso. Un edificio, denominato “Alle Fonti”, attualmente adibito ad affitta camere ed appartamenti. Il suo nome Trachicarphus Fortunei suonerebbe latore di buona sorte, ma in realtà deriva dal botanico Bernard Fortune che nel 1844 la portò in Gran Bretagna dal sud est asiatico: Cina-Birmania il probabile areale originario. Iscritto alla grande famiglia delle palme (ordine delle Arecaceae, che sono tra le piante più diffuse ed antiche della Terra), è detta anche Palma della montagna perché fra tutte è quella che più resiste alle basse temperature, fino ai -20°. A dispetto dell’immaginario che considera la palma un emblema dei climi fortemente assolati, soffre invece più l’aridità che il gelo e la neve. Si trova infatti perfino sull’ Himalaya fino a 2400 m d’altitudine. Questa straordinaria adattabilità climatica è fattore primario del suo successo planetario. Un successo tale che ormai, in alcune regioni come Lombardia e Piemonte e in diverse nazioni è considerata una pianta infestante, vero e proprio pericolo pubblico boschivo. Questo perché la strategia, che si definisce Laurofillizzazione e riguarda altre essenze immigrate come Robinia, Ligustro, Ailanto, Prugnolo americano…, mira a impossessarsi del bosco che essa “decide” di colonizzare, facendo morire le piante autoctone; siano esse quercia, frassino, carpino, sambuco, caducifoglie. Un grande e prepotente nemico, dunque, dell’ecosistema boschivo, della sua rigenerazione e biodiversità. La sua tecnica di conquista territoriale è micidiale quanto semplice. Col suo sgargiante, sempreverde ombrello di grandi foglie a ventaglio toglie la luce sotto di sé, tanto da soffocare perfino l’erba, perfino i tenacissimi rovi e l’edera. Assai attrattiva esteticamente e molto usata per abbellire parchi e giardini, si diffonde tramite le deiezioni degli uccelli; per endozoocoria, a dirlo elegante. L’avifauna inseminatrice si nutre dei piccoli frutti prodotti sia dalla pianta maschio che dalla femmina (è pianta Dioica) che, a migliaia, derivano da dei bellissimi fiori gialli assai attrattivi per gli insetti impollinatori. E questi fiori stanno sbocciando proprio ora sul Monte Altare dove da alcuni decenni la lunga marcia della Trachicarphus si è ormai lasciata alle spalle l’ex stabilimento Coletti dove venne incubata e sta risalendo con subdolo piano colonialista le pendici della collina. Che sia partita da lì e gli squilibri che produce sono fatti incontestabili. Basti vedere cosa sta accadendo tra le ex terme, l’adiacente ex rifugio antiaereo e la chiesetta vandalizzata dai writers di San Gottardo. Lì sono ormai centinaia le palme che vi dimorano e dove son più fitte stanno facendo tabula rasa. Auspicare per l’ennesima volta che le autorità competenti affrontino il caso della tutela del bosco collinare, prima che questa campagna di conquista della “Palma della montagna” produca danni gravi è urgente considerata la condizione dei nostri boschi, sempre più degradata sia dal punto di vista botanico che idrogeologico.

 

Michele Bastanzetti

 


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