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23 dicembre 2024

Treviso

Curarsi in Veneto ne vale la pena

Intervista al Dottor Filippo Gherlinzoni, Primario del Reparto di Ematologia dell’Ospedale Ca’Foncello di Treviso

| Federica Gabrieli |

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| Federica Gabrieli |

Personale Reparto di Ematologia dell’Ospedale Ca’Foncello di Treviso

TREVISO - Affascinante la Sua instancabile curiosità, elemento fondante della spinta vitale che conduce l’uomo sempre più avanti nell’intento di raggiungere e superare i propri limiti e che costituisce caratteristica dominante del Dottor Gherlinzoni; sempre pronto e preparato nell’affrontare le molte sfide della scienza e dell’etica. Il suo esercizio professionale di medico e di ematologo ha ulteriormente arricchito la sua componente di umanità proprio perchè ha posto al centro della riflessione etica dell’esercizio professionale, la dignità della persona malata. La figura di medico nobilmente incentrata sulla cura della malattia che con una sua lucida visione, capace di ascoltare e insieme decidere, prende per mano il paziente portandolo al centro del rapporto.

 

Nato ad Udine il 22 ottobre del ’57 e residente a Treviso, cresce in un ambiente dove fin dall’infanzia si respirava e alleggiava medicina (padre e fratello medici ortopedici). Ha vissuto intensamente e da protagonista una fase importante sanitaria del nostro Territorio, di cui tutto si può dire meno che non sia stata affascinante e travolgente ovvero quella di una costruzione del Reparto di Ematologia presso l’Ospedale Ca’ Foncello di Treviso.

 

Quando ha sentito la necessità di percorrere la carriera di medico e soprattutto la specializzazione in ematologia?

 

Già all’età delle superiori quando si facevano le gite scolastiche ero sempre io che mi proponevo fra i ragazzi nel fare l’infermiere.

 

Difatti ho frequentato l’Università di Medicina a Bologna, compiendo un percorso di sei anni dove l’amore per l’ematologia è arrivato in seguito all’esame del terzo anno di patologia generale. Si cominciava a parlare del sangue, del midollo osseo e di leucemie, allora assolutamente incurabili, mi venne l’idea e l’entusiasmo di dire “Questa malattia che è assolutamente inguaribile perché deve rimanere tale? Voglio contribuire anch’io con la mia preparazione e curiosità nel curare questo male”. Proprio perché a quei tempi parlare di leucemia era come parlare di una condanna, sebbene adesso le cose sono clamorosamente cambiate. Mi inscrissi come allievo interno del quarto anno di medicina all’ematologia di Bologna, sotto la guida del professor Sante Tura e mi piacque fin da subito moltissimo proprio perchè si associava la parte scientifica, la parte biologica e la parte genetica alla parte clinica ovvero al letto del paziente, dandomi una duplice visione.

 

Da lì ho proseguito il mio percorso, supportato da colleghi preparati, avendo il sostegno dell’Istituto, finanziato dalla generosità delle famiglie Seragnoli, con la possibilità di essere sempre a contatto con il top della ematologia italiana ma anche internazionale, fecendo tuttalpiù un periodo in Inghilterra prima e negli Stati Uniti dopo e quindi di produrre scientificamente ed imparare a fare il mestiere, facendomi conoscere e progredendo nella mia carriera.

 

Ho sostato per un po' di anni a Bologna fino al 2001, anno in qui mi venne proposto una interessante opportunità ovvero che l’Ospedale di Treviso cercava una persona che avesse voglia di costruire e sviluppare il settore ematologico perchè sprovvista.

 

Dalla mia accettazione dell’incarico mi fu dato un piccolo ambulatorio presso la struttura ospedaliera, cosicchhè cominciai a gestire quotidianamente un andirivieni tra Bologna e Treviso in treno.

 

La Sua famiglia l’ha sempre sostenuta nel Suo percorso professionale?

 

Togli tanto tempo agli affetti ma fortunatamente ho sempre avuto una famiglia comprensiva e che mi ha sempre sostenuto nella mia professione e passione.

 

Quando mi trasferii a Treviso il Reparto di Ematologia era una Unità semplice ovvero un ambulatorio. Ho trovato un ambiente molto aperto e disponibile; altresì mi sono introdotto in punta di piedi e con molta umiltà, difatti pian piano da ambulatorio arrivarono i primi medici a darmi un supporto dall’Università di Padova e in parte da quella di Verona, crescendo moltissimo in pochi anni. Tuttavia ho avuto una grande fortuna ovvero il sostegno di Treviso AIL, cioè l’ Associazione Italiana contro i linfomi e mielomi, allora presieduta dalla Signora Teresa Pelos, un carro armato con una notevole e nobile capacità di coinvolgere le persone, promuovendo molteplici iniziative destinate alla raccolta fondi, aiutandomi e sostenendomi nei contratti per medici, infermieri, biologi ed apparecchiature di un certo livello. Il reparto di ematologia tutt’ora ha dodici letti ed è stato costruito grazie alla donazione dell’AIL. All’inizio eravamo in tre medici e grazie alla grande generosità del primario di medicina interna il Dottor Foscolo che mi diede una piccola area del suo reparto con alcuni infermieri da me gestiti, abbiamo ottenuto il reparto e quindi seguire e trattare pazienti con leucemia acuta, quelli famosi che da studente volevo curare.

 

Cosicchè riuscimmo in breve tempo a raggiungere gli stessi risultati di ematologie più grandi, trattando pazienti anche molto impegnativi.

 

Si parla molto della indispensabilità della ricerca non solo nel Suo settore medico. Il Suo reparto si è attivato a riguardo ed in quale maniera?

 

La ricerca è indispensabile su qualsiasi tipo di sviluppo medico non c’è dubbio. E’ chiaro che all’inizio la nostra attività era soltanto assistenziale, eravamo ancora in pochi anche se anno per anno aumentava il personale e i laboratori sia del centro trasfusionale, sia i laboratori di citogenetica, di biologia molecolare, che spesso cospicuamente erano sostenuti da Treviso AIL; siamo riusciti ad entrare in un certo circuito di ricerca nazionale e internazionale partecipando a studi clinici e biologici.

 

Ha mai avuto un momento di sconforto legato alle difficoltà della sanità di oggi nel reperire infermieri?

 

Forse il momento di maggior sconforto è proprio adesso perché ci si rende conto che i numeri in termini medici ed infermieristici della sanità nazionale cominciano a divenire assolutamente insufficiente.

 

Questo è dovuto ad una crescita di malati o a una mancanza di infermieri?

 

Entrambe le cose, una perché è aumentata la domanda, la gente si cura di più ed è anche più impaurita e spaventata arrivando dal periodo del covid, temendo per se stessi e per i propri famigliari. Devo dire che è aumentata la domanda anche in situazioni dove non ci sarebbe bisogno; altro punto importante è che la professione del medico ed infermiere è diventata meno attrattiva ovvero l’infermiere ma anche il medico hanno una remunerazione che è la più bassa in Europa e c’è una fuga comprensibilissima fuori dalla Nazione.

 

Si parla molto del nuovo centro trapianti, avete iniziato ad attivarvi su questo fronte o la burocrazia italiana ci ha messo lo zampino?

 

Il mio percorso è stato quello di un progressivo potenziamento delle strutture del Reparto di Ematologia di Treviso, abbiamo iniziato a fare il primo autotrapianto di midollo osseo con cellule staminali con poietiche nel 2005; attualmente siamo arrivati a farne circa novecentosettanta, una media di cinquanta all’anno. Per quanto riguarda l’impianto osseo allogenico ovvero da un’altra persona compatibile sia familiare o non familiare, che è una procedura molto più complessa dell’autotrapianto, siamo partiti a fine gennaio con ottimi risultati di cui due trapianti da fratelli HLA identici ed uno da fratello solo parzialmente compatibile; oggi è entrata la quarta paziente. Abbiamo un calendario di pazienti che potranno usufruire del nostro servizio e credo che arriveremo a poco più di trenta trapianti allogeni nel 2024.

 

Chiunque può diventare donatore?

 

La fascia d’età più adeguata, indistintamente dal sesso, sarebbe dai 18 ai 35 anni, che inscrivendosi in un registro o database possono essere chiamati proprio perché c’è una persona che ha bisogno di un midollo nuovo e che ha le stesse caratteristiche genetiche essendo un donatore compatibile e quindi può salvare una vita.

 

Cosa deve fare un donatore?

 

Deve essere ovviamente sano, prendere contatti con il Centro Trasfusionale di Treviso, fare un prelievo di sangue ed attendere la chiamata. Una volta si prelevavano le cellule staminali dal midollo osseo, ora invece dal sangue periferico stimolando con una iniezione sottocute il midollo osseo del donatore, mandando in circolo le cellule staminali che interessano, finchè il donatore sano dopo una serie di giornate, ha mandato in circolo un numero di cellule staminali sufficienti per essere raccolte e reinfuse al paziente. Dopodichè per raccoglierle si preleva dalla vena del donatore, passando attraverso un apparecchio che si chiama separatore di cellule staminali che restituisce al donatore tutto il resto. Questo si chiama trapianto allogenico.

 

C’è una età media per sottoporsi a questi trapianti?

 

Le malattie ematologiche riguardano tutte le età, la leucemia acuta linfoblastica è la malattia tumorale più frequente nell’età pediatrica; fortunatamente sono pochi però, come tutta la patologia tumorale, aumenta con l’aumentare dell’età.

 

Quando mi sono laureato si diceva che l’età massima per sottoporsi ad un trapianto erano i cinquanta anni, adesso si trapianta anche senza limiti.

 

E’ aumentato il numero di persone che necessitano di trapianti?

 

Si perché con le nuove frontiere della medicina una delle cose più importanti è la possibilità di curare l’anziano. Una volta con la chemioterapia vecchio stile, oltre una certa età non si poteva andare perché la tossicità era mortale; adesso con farmaci nuovi si ha la possibilità di trattare pazienti anziani con delle molecole che sono meno tossiche, quindi tutta la parte ematologica ed oncologica ha fatto passi da gigante, spostandosi avanti di 15 anni in termini di possibilità di trattamento, quindi più pazienti che possono accedere al trapianto o terapie.

 

E’ stato considerato nel 2019 tra i migliori medici in Italia. Perché un medico arrivi ai Suoi livelli che doti deve avere, ovvero qual’è il segreto?

 

Credo che le doti di un medico devono essere prima di tutto l’empatia, tu puoi essere il più grande medico ma se non ti metti nei panni del paziente non riuscirai mai a comprenderlo fino in fondo proprio perché quest’ultimo ha deciso di affidare a te medico la sua vita ovvero si fida delle tue conoscenze, del tuo ingegno, della tua sensibilità; perdipiù sono malattie che se non vengono trattate nel modo giusto possono essere mortali e quindi bisogna darsi completamente difronte ad una persona che la sua vita l’affida a te.

 

Le scelte sono difficili, ogni persona è diversa e di conseguenza ha una reazione diversa. Poi ci deve essere la preparazione, conoscenza, aggiornamento, umiltà, mettersi sempre in discussione e la sincerità. Un paziente che vive una malattia come questa, vive in un costante stato di sospensione e prospettiva. A tal proposito mi è rimasta impressa una frase di un paziente che dopo un lungo percorso di cura mi disse: “Ho capito di essere guarito quando ho ripreso a coniugare i verbi al futuro”.

 

Cosa consigli ai giovani che intendono percorrere lo studio in medicina?

 

Siamo dei privilegiati perché si ha la conoscenza per fare star meglio e felici le persone e questo è meraviglioso. E’ la più bella professione del mondo perché ti dà grandi soddisfazioni quando guarisci, aldilà della patologia. Il medico non studia soltanto, è anche molto attento alla quotidianità del mondo, una conoscenza essenziale per calarsi nel vissuto delle persone. Tutto ciò richiede un grande impegno, una notevole umiltà perché si impara da tutti, per primo dai pazienti, una grande curiosità personale e onestà intellettuale. Si deve stabilire una relazione col paziente, mostrare capacità di ascolto che richiede tempo ma anche propensione nell’entrare nelle parole della persona, nel viverle con empatia e nel dare risposte a chi si aspetta aiuto da parte di professionisti. Verosimilmente il servizio sanitario dovrà essere ripensato, ma chi se non dai giovani d’oggi che si affacciano ad una professione come questa; certo che vivranno un futuro entusiasmante anche per gli strumenti tecnologici e conoscitivi di cui disporranno.


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