09 novembre 2024
Categoria: Scienze e tecnologie - Tags: storia della medicina, medicina, qualità di un medico, compassione
Se doveste pensare ad una qualità, una sola, che ricercate e desiderate in un medico, quale scegliereste? Pensateci. Se avete pensato alla compassione, allora questo post fa per voi!
Recentemente stavo sfogliando “Il mestiere di medico” di Giorgio Cosmacini (Raffaello Cortina Editore, 2000), nel quale questo autorevole medico e storico della medicina passa in rassegna la figura del medico com’è vista nei secoli, dall’età antica a quella contemporanea, andando dagli Egizi ai Greci, dagli Arabi agli Ebrei, fino al medico “futuro”.
Personalmente mi ha colpito particolarmente il riferimento al compatire come la più importante qualità del medico del Regno d’Egitto. Sunu sembra derivi da sun, che significa ‘soffrire’, ‘patire’. È giustificato pensare, spiega il prof. Cosmacini, che il medico egizio, il sunu, appunto, fosse ‘l’uomo che appartiene a chi soffre’, che ha ‘com-passione’, “cioè che partecipa all’esperienza esistenziale del paziente di cui si prende cura”. Dunque il medico egizio può essere considerato non solo, e non tanto, un medico guaritore, quanto un medico curante. Infatti indipendentemente dalle specializzazioni che i medici egizi potevano avere, erano soprattutto dei medici a tutto-tondo, medici che si prendevano cura del paziente nella sua globalità, la loro caratteristica migliore era certamente il compatire: partecipare all’altrui sofferenza.
“[…] l’uomo ferito […] era sì l’oggetto di un intervento localistico – la riparazione della parte lesa – ma era anche il soggetto con autonomia ridotta di cui il medico tutelava l’integrità personale, facendosi mediatore tra necessità del paziente e interessamento della comunità
”
Il medico rappresentava, dunque, un protettore della persona, un difensore della sua autonomia anche in malattia, rappresentando un ponte tra ciò di cui aveva bisogno il paziente e ciò che la comunità poteva offrirgli.
L’uomo egizio “era di statura media, asciutto, prosciugato dalle fatiche e dal sole del deserto. A trent’anni aveva raggiunto il limite massimo della speranza di vita alla nascita consentitagli dagli dèi. Ogni giorno di vita in più era un dono di Ptah, la divinità venerata nel tempio di Memfi, regolatrice suprema dell’esistenza umana”. L’uomo dell’Antico Egitto sapeva fin dalla nascita che avrebbe passato la sua vita prima a lavorare nei campi e poi, diventato più forte, nella cave di pietra. Viveva per lavorare e non temeva la morte: “Il trapasso nella morte non era un salto nel buio”; era un suddito fedele e come tale sapeva che “avrebbe potuto sopravvivere da morto, partecipe della stessa penombra riposante, senza più sole a picco. […] la colpa di essere uomo” mortale “veniva riscattata dalla morte in una sorta di premio”. In questo senso il medico aveva grande capacità di rendere il passaggio nell’Aldilà il più sereno possibile, accompagnando l’uomo mortale al suo premio eterno, non avendo, molte volte, i rimedi utili (e forse neanche la volontà) per ‘strapparlo’ da questo trapasso.
Il medico egizio era molto bravo a formulare la prognosi (la previsione sul probabile andamento della malattia): “la predizione del decorso della malattia con i tempi e i modi della sua conclusione era, infatti, il campo dove si misurava la valentìa del buon medico. Era la precisione predittiva, non l’efficacia della cura, il metro del suo valore”. Il sunu aveva a disposizione rimedi più o meno efficaci nella guarigione, ma la sua abilità non era tanto quella di guarire il paziente dalla malattia, che appare essere inesorabilmente progressiva, quanto quella di prendersi cura della persona, alleviando le sue sofferenze. Oggi chiunque si affidi a un medico pretende un risultato certo, affidabile e, se possibile, in tempi rapidi, credendo che il medico abbia tutte le risposte, che gli sia sufficiente uno sguardo al paziente per capire cos’ha e che abbia tutti i rimedi necessari. Non è così. Purtroppo, infatti, nonostante i numerosi passi da gigante che la Medicina compie continuamente, non sempre la diagnosi e/o la guarigione è possibile, magari perché si conosce poco di quella patologia, oppure perché questa si presenta in una forma difficilmente riconoscibile. Forse, dovremmo valutare i nostri medici anche sulla base della loro attitudine a curare, a prendersi cura del malato, non solo a guarire. Certamente un medico che non sia in grado di curare adeguatamente una patologia per la quale le nostre conoscenze ci permettono di farlo in sicurezza è da biasimare, ma sbagliare è umano, anche se gli errori in medicina si pagano cari. Il medico non è certo onnipresente/onnipotente e non compie miracoli. Forse è opportuno riconsiderare ciò che gli Antichi Egizi hanno da insegnarci.
Vignetta realizzata da Antonio Steffan - (C)2012.
La medicina ha sempre avuto, e continua ad avere, un’investitura sacra: i sacerdoti sono sempre stati assimilati a dei curatori, erano gli unici che “sapevano come placare la collera degli dèi o la malvagità dei demoni e come invertire l’ostilità in aiuto”. Il sacerdote era l’unico in grado di dire se una malattia di origine sconosciuta fosse dovuta alla collera degli dèi o al malocchio di un nemico. Il medico si avvicinava a questa capacità quando doveva capire le cause delle malattie ‘interne’, quelle ‘incerte’, perché i motivi erano nascosti all’interno del corpo, non visibili, ed era necessario ‘indovinarli’. Esisteva già al tempo degli egizi una differenziazione specialistica, secondo Erodoto, infatti, esistevano ‘medici degli occhi, della testa, dei denti, delle malattie intestinali’. Proprio il medico degli occhi, spiega Cosmacini, aveva un gran lavoro perché le malattie oculari erano estremamente diffuse viste le condizioni in cui gli uomini lavoravano: sole abbagliante, sabbia sollevata dal vento, tracoma endemico. Il medico egizio oculista usava pomate ed impacchi per alleviare i sintomi ed evitare le complicanze, ma in questi rimedi erano insiti significati simbolici. Per esempio nella cura del tracoma il medico usava “una pomata alla crisocolla con resina di terebinto (pistacchio) e ocra gialla”. L’ocra era la stessa che veniva applicata sulle palpebre come trucco: “la divinità che aveva cura del bello era la stessa che aveva cura del bene”. Insomma secondo le usanze egizie ogni rimedio, per quanto efficace potesse essere, avrebbe perso d’efficacia “se a esso non si univa un additivo simbolico o analogico, un gesto propiziatorio […], una preghiera […], un’invocazione […]”. Nonostante la specializzazione ne emerge un medico che guarda il malato nella sua totalità, spendendosi per la “liberazione dal male” e per “riempire di speranza l’attesa”. Così come il ‘medico degli occhi’, anche il ‘medico della testa’ guardava al locale, ma anche al globale. Egli si occupava dei “mali che facevano andare fuori di testa”, come l’epilessia: e come poteva risolvere questa malattia se non cercando di far uscire dalla testa gli spiriti demoniaci attraverso la trapanazione del cranio? Ma: “Per guarire non bastava la tecnica perforatrice, era indispensabile la partecipazione di tutto il malato, anima e cuore, propiziata dal sunu, abile chirurgo, quanto esperto esorcista”.
Dalla colta e dettagliata descrizione del prof. Cosmacini il medico egizio appare come focalizzato al problema particolare, ma senza perdere la visione olistica sul malato. Mi chiedo se oggi possa avvenire lo stesso: riescono i medici, nonostante specialisti e a volte ultra-specialisti, a mantenere una visione d’insieme sul malato? La risposta è sì. I medici oggi (e lo saranno sempre di più in futuro) sono davvero super-specialisti, non è possibile altrimenti, visti i passi da gigante che la medicina e la biologia fanno continuamente. Tuttavia essi costruiscono le loro fondamenta con nozioni di medicina generale e poi su queste solide basi approfondiscono un particolare aspetto, senza, però, perdere di vista la complessità della persona nella sua globalità. Questo, naturalmente, implica necessariamente un continuo dialogo anche con gli altri specialisti, nell’ambito di un incontro multidisciplinare che ha come obiettivo la salvaguardia completa della salute della persona.
“Vediamo emergere la figura di un medico intento a coniugare tecnica e religiosità, terapia della parte e cura del tutto, nonché pronto ad aiutare il paziente in situazioni di bisogno e di dipendenza, e nei casi in cui, soprattutto, l’autocura non basti ad alleviargli il peso dei mali della vita. Per tutto ciò, all’origine del mestiere, la sapienza dell’antico Egitto appare un punto di partenza significativo e autorevole
”
Una splendida figura di medico a cui ispirarsi nella pratica quotidiana, aggiungo io. La compassione e la visione del malato nella sua globalità sono due delle tante qualità che il medico, oggi, deve assolutamente possedere.
Giorgio Cosmacini è uno dei più grandi storici della medicina del nostro Paese. Nato il 10 febbraio 1931 a Milano, si è laureato in Medicina e Chirurgia a Pavia nel 1954. Ha dedicato la sua vita al mestiere di medico sia nella pratica che nello studio, diventando professore di storia della medicina presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Autore di numerosi libri, in questo post mi sono focalizzato sul primo capitolo “Il sunu egizio”, ne “Il mestiere di medico” (edito da Raffaello Cortina Editore, 2000).
Si può apprendere mentre si dorme?
e prossimamente
un umile tributo a Rita Levi-Montalcini, con un post sulla sua grande scoperta: il fattore di crescita nervoso, per capire cos'è e che impieghi pratici può avere nella cura delle malattie nervose degenerative.
Le informazioni sopra riportate e tutti gli articoli del blog hanno solo un fine illustrativo: non costituiscono un consiglio medico, né provengono da prescrizione specialistica. Essi hanno lo scopo di spiegare tematiche mediche in modo comprensibile a tutti, senza, però, avere la presunzione di esaurire l'argomento in poche righe. Vi invito a rivolgervi al proprio medico curante, ai farmacisti e a tutti gli altri specialisti qualificati per chiarire qualsiasi dubbio riguardante la vostra salute. Il rapporto di fiducia, di stima reciproca e di confidenza tra medico e paziente deve essere sempre coltivato e salvaguardato con il massimo impegno possibile.
photo credit: vignetta realizzate da Antonio Steffan - (C)2012. Visita la sua pagina Facebook!
immagine di copertina: photo credit: <a href="http://www.flickr.com/photos/dorlino/3508153632/">Dorli Photography</a> via <a href="http://photopin.com">photopin</a> <a href="http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/2.0/">cc</a>
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tex2000
20/01/2013 - 10:34
qualità del medico???
La compassione, comprensione e ciò che riguarda l'ambito spirituale lasciamolo al prete o altra figura a seconda delle credenze
segnala commento inopportuno