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20 gennaio 2025

il Settimo Continente

- Tags: rifiuti, isola, pacifico

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Alberta Bellussi | commenti |

Il Settimo Continente

L’altro giorno facendo zapping alla tele ho visto un servizio su quello che viene provocatoriamente chiamato il Settimo continente; devo dire che ne avevo sentito parlare ma non ne avevo mai visto le immagine così nitide e chiare. La visione ha suscitato in me riflessioni molto poco rassicuranti e negative. E infatti uno dei fenomeni più eclatanti degli effetti del consumismo, della cattiva gestione del ciclo integrato dei rifiuti e del pessimo riutilizzo delle risorse naturali tramite riciclo è senza dubbio l’insieme delle isole di plastica che galleggiano nella parte orientale del nord e del sud Pacifico ma non solo.

Charles Moore, nell’Oceano Pacifico, scopre nel 1997 quello che passerà alla storia come il Great Pacific Garbage patch o il Garbage Vortex, o Pacific Trash Vortex, un gigantesco ammasso di plastica galleggiante. Ora le “isole di plastica” sono diventate tre, due nell’Oceano Pacifico ed una nell’Oceano Atlantico. Le proporzioni di questi ammassi in mare (vere e proprie “Isole di Plastica”) sono da epopea spaventosa. Parliamo con i dati alla mano per renderci conto del problema, le “isole di plastica” del Pacifico per ognuna raggiungono il peso di circa 100 milioni di tonnellate di rifiuti per un diametro di oltre 2500 chilometri e una profondità di almeno 30 metri. È una macchia continuamente nutrita da Giappone, Cina, Messico, Stati Uniti e da tutte le navi di passaggio.

È stato stimato che la gran parte di questi residui di plastica, circa l’80%, viene appunto dagli scarichi terrestri, da tutti i tipi di plastica di consumo non smaltiti in modo proprio. Il resto, la minoranza, è da attribuire alle navi ed alle imbarcazioni da diporto e da pesca. Gli scarichi terrestri includono poi i cascami dell’industria della plastica. Il Pacific Trash Vortex viene generato dal moto circolare delle correnti oceaniche che radunano queste enormi masse che persistono nel Pacifico formando così questa spaventosa discarica in mare. Per quanto riguarda “l’isola di plastica” nell’Oceano Atlantico le dimensioni sono all’incirca le stesse, questa la produciamo noi, Europa e Paesi occidentali per intenderci. Il danno ambientale è ingentissimo, le onde sminuzzano resti di bottiglie, buste di plastica, suole di scarpe, spazzolini da denti, siringhe e altri oggetti, molti di questi pezzi di plastica poi entrano in simbiosi con la flora e la fauna marina, e attraverso piccoli organismi una parte va a fondo. In questo ammasso la concentrazione di parti di plastica è di dieci a uno rispetto al plancton di cui si cibano oltre alle balene anche altre specie. E poiché questi non distinguono alla vista la diversità, finiscono con il cibarsene. La stima scientifica avviene in laboratorio da esperti scienziati che parlano di questa poltiglia chiamandola mimic food. Nel laboratorio della Fondazione Algalita vengono analizzati questi campioni di acqua mista a questa poltiglia di plastica in essa dispersa e i ricercatori con appositi strumenti separano la plastica dal plancton e dagli altri organismi con essa entrati in simbiosi ed è così che si può fare il rapporto con il plancton. In dieci anni questa è risultata in aumento rispetto al plancton del 60%. Residui di plastica si trovano nello stomaco dei pesci che ne provocano la morte. Le minuscole particelle, invece, possono infilzarsi nella carne del pesce finendo così nella catena alimentare umana. Il disastro in atto è inarrestabile, l’intera catena alimentare è compromessa. Gli uccelli acquatici, tipo gli albatros, sono particolarmente attratti dai tappi di plastica delle bottiglie e spesso dopo averli inghiottiti vanno a morire a terra lasciando come unica traccia della loro esistenza il contenuto del loro stomaco, tappi di bottiglia ed altri pezzi di plastica.

Secondo l’Unep, il Programma Ambientale delle Nazioni Unite, ci sono 46mila pezzi di plastica galleggianti in ogni miglio quadrato di oceano. Questo perché ora la maggior parte dei rifiuti non è biodegradabile e il suo ostinato rifiuto a decomporsi è incrementato dalla pseudo cultura dell’ “usa e getta”. Prima che ognuno di noi prenda coscienza di questo passeranno diversi anni e il pianeta non ha tutto questo tempo, occorre fare in fretta, tutti noi siamo partecipi del cambiamento, ognuno con la propria coscienza deve contrastare questo sistema di cose che ci appare irreversibile, imponendoci la cultura del riuso degli oggetti, imporre la differenziazione dei rifiuti ai propri Comuni, pretendere che la raccolta differenziata sia vera ed efficace, utilizzare il nostro buon senso affinché non ci sia più nessuno che possa abbassare lo sguardo di fronte allo stillicidio sulla natura. Mi chiedo anche perché a nessuno viene in mente un progetto per cercare di liberare il mare da questi inquietanti rifiuti? Un Mondo migliore lo si deve pretendere e non lasciare più il nostro futuro al caso incontrollato di uno sviluppo contro l’uomo, disumanizzante, in cui l’ossessiva e frenetica produzione impone il suo feticcio malforme che è l’usa e getta. Sono tante piccole gocce che fanno un oceano, sono le azioni di ognuno di noi che potrebbero dare un contributo perché tutto ciò non accada, sono le posizioni e le imposizioni politiche che devono prendere in mano queste problematiche considerandole di interesse primario e determinante.

http://www.focus.it/cultura/l-isola-dei-rifiuti-e-sempre-piu-grande



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